Anche la Sesta Dimora ha come protagonista assoluto Gesù: è lui che prende l’iniziativa, alla persona è riservata la libertà di accogliere i doni che le vengono elargiti. In modo particolare in questa Stanza ella viene radicalmente purificata e illuminata circa la verità.
Teresa usa il simbolismo nuziale, che è da intendersi in maniera biblica: Dio è infatti spesso indicato come lo Sposo e Israele come la sposa, quell’Israele che è dapprima il popolo eletto, poi la Chiesa, poi il popolo di Dio, poi l’intera umanità…e dunque ogni singola persona. Alcuni possibili riferimenti:
All’interno del simbolismo nuziale, Teresa afferma che la Sesta Dimora è un vero e proprio “fidanzamento”, che ha già in sé qualcosa di irrevocabile e definitivo (si pensi al fidanzamento nel mondo biblico…). Esattamente per questo motivo l’esperienza spirituale in questa stanza è la radicale purificazione: Dio e la persona infatti si scelgono reciprocamente in maniera totale e definitiva, dunque è necessario che in quest’ultima sia tolto tutto ciò che può offuscare la trasparenza di questo amore e di questa donazione.
Ciò accade quando si è già abitato in tutte le cinque stanze precedenti e l’unione di volontà tra la persona e Dio è continua. La persona cioè è già sufficientemente fortificata da poter sopportare la sofferenza che la purificazione radicale porta con sé e anche sufficientemente innamorata di Dio da comprendere che il dolore che sperimenta è per il suo maggior bene, perché possa essere unita a Dio in maniera assoluta, godendo di Lui in pienezza. “Nada te turbe, nada te espande, quei a Dios tiene nada le falta. Solo Dios basta”. Durante la purificazione che sperimenta nella Sesta Dimora la persona non percepisce la verità di questo tra le consolazioni o nel sollievo delle emozioni. Al contrario, ella percepisce la sua interiorità andare come in frantumi, incapace di pregare, perfino crede di essere rigettata da Dio come “cosa abominevole”; eppure, dentro questa terribile desolazione, la certezza che “solo Dio basta” non viene meno, nemmeno per un istante.
La sofferenza può essere sia interiore sia esteriore; può avere origine puramente soprannaturale o andare a poggiare su ferite umane (fisiche e/o psicologiche). Ciò che fa comprendere che è una purificazione d’amore è il fatto che la persona non cessa di restare in relazione con Dio, che lo continua a credere Amore infinito, che va avanti a servire i fratelli e le sorelle. Più la purificazione si fa profonda, più si fa intensa la sofferenza, e più la persona si getta nelle braccia di Dio con confidenza totale, e più ama gli altri. E’ questo l’ingresso nella autentica vita mistica, cioè nella vita teologale: l’amore umano viene cioè assorbito e purificato dall’Amore soprannaturale, cosicché la persona si trova a percepire in sé un “Amore non suo”: di questo vive e questo riversa sul prossimo. I suoi desideri si fanno sempre più ardenti e la sua sete di amore insaziabile: nulla sembra più essere sufficiente alla persona, per questo arriva a desiderare “solo Dio”, perché Egli solo “basta”, cioè la appaga: ciò non significa che è disinteressata a tutto ciò che non è Dio, ma che ogni cosa gustata in Lui e, in Lui, acquista nuovo sapore, nuovo colore e nuova profondità. Questo riempie la persona di una gioia mai sperimentata prima, che convive con la sofferenza della purificazione, senza conflittualità alcuna. Proprio questa duplice contemporanea presenza, unita alla pace interiore, è ciò che permette di comprendere che si è proprio nella Sesta Dimora e che Dio è all’opera.
La grande maturazione che la persona fa in questa Dimora è di imparare a riconoscere la voce di Dio. Fatta eccezione di coloro ai quali sono donate grazie mistiche straordinarie, di norma il riconoscimento della “voce di Dio” passa attraverso i fatti quotidiani che accadono, le illuminazioni durante i momenti di preghiera silenziosa e, soprattutto, tramite la Sacra Scrittura: la persona cioè recepisce la Parola di Dio come rivolta personalmente a lei, “qui e ora” e altro non desidera che rispondere prontamente e con estrema concretezza.
A sottofondo di tutto, lo struggente desiderio di “vedere Dio”, insieme alla disponibilità a fare qualunque cosa perché gli altri possano conoscere Dio e ricambiare il Suo infinito amore (cfr S. Paolo Fil 1,21-24).
Può capitare che la persona, ormai presa pienamente dall’amore di Dio, ripensi al suo passato e non riesca a perdonarsi i tempi in cui è stata lontano da Lui, vivendo magari in condizioni di peccato grave. E’ molto importante, in questa circostanza, fare un attento discernimento sul vissuto profondo della persona: potrebbe infatti essere sì un dolore legato all’amore, ma potrebbe anche celare del ripiegamento, oppure del senso di colpa, oppure una ferita all’immagine di sé. Per questo la conoscenza di sé, delle proprie dinamiche umane, tanto raccomandata all’inizio del percorso, è veramente fondamentale, mai esaurita e mai da accantonare…nemmeno nella Sesta Dimora. Da un lato è vero che è cosa buona conservare la memoria della propria piccolezza, ma dall’altro è bene avere tutta l’attenzione rivolta a Gesù, alla Sua Umanità, al Suo Amore gratuito: paradossalmente, si potrebbe persino cadere nel rischio di attaccarsi alla propria miseria, per rimanere in ultima analisi sottilmente rivolti a se stessi invece che a Dio.
Stando invece rivolti a Dio, si matura in quell’atteggiamento interiore che viene chiamato “preghiera continua”, cioè l’ininterrotto dialogo con Dio 24 ore su 24, ben al di là dei momenti di preghiera strutturati. Questo dialogo continuo sussiste però, paradossalmente, con la dolorosa percezione dell’assenza di Lui, non perché Dio sia realmente assente, ma perché la brama di vederLo è talmente ardente che niente altro dona vera gioia o suscita autentico interesse. E’ come se la persona si percepisse sostanzialmente sola, perché non è di fatto completamente con Lui e le altre compagnie, pur amabili e amate, non le bastano.
Teresa esprime questo vissuto dicendo “muoio di non morire”; e S. Giovanni della Croce, in maniera più poetica, conferma:
“O fiamma d’amor viva,
che soave ferisci
dell’alma mia nel più profondo centro!
Poiché non sei più schiva,
se vuoi, ormai finisci;
rompi la tela a questo dolce incontro!” (Fiamma d’amor viva, B, 1° strofa)
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“Anche la sesta stanza non è ancora il luogo di riposo definitivo per l’anima. Il suo desiderio anela a quell’unione duratura che le è assicurata solo nella settima stanza, ed ella viene provata con dolori ancora più intensi, sia esteriori che interiori. Viene colpita da violente bufere interiori che possono essere paragonate solo alle pene dei dannati e alle quali solo Dio può porre fine.
[…] L’intensità del desiderio fa soffrire l’anima al punto da portarla realmente vicino alla morte.
[…] Questo è l’ultimo atto preliminare che prepara l’elevazione al più alto grado di grazia conseguibile sulla terra” (Edith)