Il capitolo 7 è molto impegnativo; porta il titolo: “Gli anni di studio a Gottinga” ed è diviso in 5 paragrafi.
Il primo, che nella Edizione italiana conta 29 pagine, narra sostanzialmente il primo semestre di vita e di studio nel nuovo ateneo universitario.
A titolo di cronaca, nel 1982, per l’Editrice Morcelliana, era uscito un volume intitolato “Il mio primo semestre a Gottinga”, ora non più reperibile. Si trattava in realtà del paragrafo 5 del cap. 5 e del paragrafo 1 del cap. 7 della “Storia di una famiglia ebrea”. Una nota diceva che Edith preparò questa conversazione quando era già convertita, come dono per il suo direttore spirituale, il Rev. P. Arciabate Walzer, O.S.B. Probabilmente poi Edith ha ripreso il materiale e lo ha inserito nella sua autobiografia, aggiungendovi solo 4 righe di inizio e 6 righe di conclusione del paragrafo 1 del cap. 7, a introduzione e conclusione del discorso. Anche nell’edizione tedesca “Aus dem Leben einer jüdischen Familie” non vi è nessun accenno al fatto che questi due paragrafi fossero stati scritti come dono all’Arciabate Walzer. Le Edizioni Morcelliana non citano la fonte di tale informazione - cioè se altrove, in qualche altro suo scritto, Edith lo afferma -, quindi prendiamo questa nota così come è, con tutti i suoi limiti dovuti alla non-verificabilità della fonte.
Il cap. 7 si apre con una esclamazione che ben rende il coinvolgimento emotivo di Edith nel narrare questi suoi anni di studio in questa cittadina universitaria, posta nel cuore della Germania.
Scrive Edith:
“La cara Gottinga! Penso che solo coloro che hanno studiato là negli anni tra il 1905 e il 1914 - la breve fioritura della scuola fenomenologica di Gottinga - può capire che cosa risuoni in questo nome per noi”.
E’ importante tenere conto di questa coloritura emozionale che Edith ci offre - ella che è sempre così parca e misurata nell’esprimere i suoi vissuti affettivi - perché ci richiama a entrare come in punta di piedi nel vissuto interiore che ci viene offerto. Come abbiamo già avuto modo di dire, l’autobiografia non è una narrazione di dati oggettivi e obiettivi, ma il racconto di come i fatti sono stati percepiti dalla persona, quale risonanza interiore hanno avuto, quali corde intime hanno fatto vibrare. Per questo se è sempre scorretto giudicare la vita altrui, nel racconto autobiografico l’attenzione a comprendere dall’interno ciò che ci viene comunicato è d’obbligo. Nel caso specifico, il fatto che Edith esordisca con un vocativo ci richiama a essere ancora più silenziosi e delicati, accoglienti, liberi da ogni sguardo indagatore a sproposito.
Edith arriva a Gottinga nell’aprile 1913, ha 21 anni. Partita da Breslavia, passa per Amburgo a salutare la sorella Else e il cognato Max Gordon e giunge appunto a Gottinga. Ad attenderla alla stazione c’è il cugino Richard Courant, che la conduce alla casa presa in affitto, al n° 2 di Lange Geismarstraße, una stretta stradina che dal centro della città conduce al “camposanto” di Albano, cioè al sagrato della Chiesa di Albano, posta al limite del centro storico. Qui Edith ha affittato per sé e per l’amica Rose, che sarebbe arrivata da Berlino a breve.
Dopo avere descritto la città, Edith fa due annotazioni a mio avviso molto importanti. Una riguarda proprio la città di Gottinga in sé; così scrive:
“L’università e gli studenti erano il fulcro della vita cittadina; era una vera e propria «città universitaria», non - come Breslavia - una città che, tra le altre cose, aveva anche una università”.
Questo mi pare rinforzare il vocativo usato da Edith in apertura capitolo: Gottinga cioè non è una città a pieno titolo, in cui l’università è variabilmente integrata; al contrario, è luogo che trova la sua sussistenza e la sua ragion d’essere proprio nell’università. Da qui la conseguenza che a essere protagonisti della vita del luogo sono i docenti e gli studenti, legati tra loro dalla passione per le materie di studio. Se poi, come di fatto sta accadendo in quegli anni, sta venendo alla luce una nuova corrente di pensiero filosofico, si può ben immaginare quale sia il clima emotivo, l’investimento delle vivaci energie intellettuali, la passione per la ricerca, la discussione, il confronto, l’approfondimento.
La seconda annotazione è in un certo qual modo legata a quanto appena detto: sono gli anni della nascita della fenomenologia ed Edith è esattamente una di quelle persone che ha raggiunto il Maestro Husserl avendo intuito che ivi vi è possibilità di elaborare gli strumenti intellettuali fondamentali del pensiero e dell’indagine sul reale, a differenza degli studi psicologici, che sono non solo ancora a un livello embrionale, ma che paiono mancare della possibilità di avere in sé la base concettuale necessaria da porre a fondamento delle ricerche stesse. Annota Edith:
“L’istituto di psicologia era completamente separato da questo [cioè dal luogo ove si svolgevano i seminari di filosofia, ndr], si trovava infatti nei pressi della chiesa di S. Giovanni, un po’ ad occidente del mercato; un edificio antico dai gradini consumati e dalle stanze strette. La distanza spaziale indicava già che la filosofia e la psicologia, a Gottinga, non avevano niente a che spartire”.
Poco fa ho detto che Edith arriva a Gottinga qualche giorno prima di Rose: è con lei infatti che vive questa esperienza universitaria, sebbene l’amica frequenti la facoltà di matematica. Rose è quell’amica con cui Erna e Lilli avevano avuto difficoltà relazionali; Edith era stata colei che aveva avuto la forza interiore di affrontare apertamente con Rose la questione, dicendole quale aspetto della sua personalità rendeva faticoso agli altri relazionarsi con lei, ma assicurandole anche che per lei, Edith, che pure condivideva l’analisi altrui, essa non era motivo per interrompere l’amicizia. Questa lealtà di relazione non manca di portare i suoi frutti. E’ la stessa Edith a scrivere:
“In quell’estate in cui vivemmo così a stretto contatto non ricordo una sola lite o attrito tra noi. Per quanto i suoi impegni glielo permettevano, Rose prendeva parte alle mie lezioni di filosofia; anch’io facevo un po’ di matematica con lei”.
A Gottinga Edith e Rose non studiano solamente; al contrario, colgono l’occasione di essere in quella nuova regione per conoscere i luoghi artistici, culturali e le bellezze naturali della zona. Sempre Edith scrive:
“Appena il tempo lo permetteva, stavamo all’aperto. Prima di uscire scrivevamo la nostra lettera settimanale a casa e, a turno, agli amici e alle amiche che avevamo lasciato. La domenica, se il tempo era bello, stavamo quasi sempre fuori tutto il giorno. Talvolta restavamo via dal mezzogiorno del sabato alla domenica sera. Durante quell’estate volevamo conoscere il paesaggio della Germania centrale”.
Non sono mancate anche escursioni di più giorni, con non pochi km macinati a piedi.
C’è una annotazione di Edith interessante. A un certo punto scrive:
“Anche dalle altre parti Gottinga è attorniata da colline e boschi; molti faggi, che mandavano bagliori rossi e oro quando si arrivava in autunno per il semestre invernale. E dalle alture, antiche rovine della città guardano sulla vallata. Avevo una preferenza particolare per i Gleichen, due cime molto vicine tra loro, entrambe circondate da rovine. Sulla sella tra le due sommità c’era una locanda alla buona; là dentro c’era un annale dei conti Gleichen, che un tempo dimoravano lassù. Quando dall’alto guardammo giù nella valle mi sentii veramente nel cuore della Germania”.
Non penso sia una annotazione esageratamente interpretativa il supporre che non era, quello di Edith, un sentirsi nel cuore della Germania solo dal punto di vista geografico, ma anche storico e soprattutto dello sviluppo del pensiero. Non nel cuore politico della Nazione, là dove i potenti decidono le sorti di un popolo, ma nel cuore intellettuale, là dove gli intelletti tesi alla ricerca della verità si confrontano per progredire insieme nella formazione della coscienza.
Proseguire nell’analisi puntuale del 1° paragrafo di questo 7° capitolo è impossibile. Ci limitiamo perciò a mettere in luce i 4 aspetti fondamentali.
Il primo riguarda l’incontro con il filosofo Adolf Reinach. Inizialmente era allievo del filosofo Theodor Lipps, ma nel 1905 raggiunge Husserl a Gottinga per farsi suo allievo ed essere da lui iniziato in questa nuova scienza chiamata fenomenologia e che trova appunto in Husserl il suo fondatore. E’ il primo allievo del grande maestro a ottenere la libera docenza ed è suo braccio destro. A lui è affidato il compito di fare da anello di congiunzione tra il maestro e gli studenti; ha una evidente capacità di trattare in modo amabile con le persone. Proprio a motivo di questo suo ruolo, Edith lo incontra appena giunta a Gottinga. Viene ricevuta nel suo studio privato, al n° 28 dello Steinsgraben, strada al margine della città; la casa privata dei Reinach è l’ultima, prima dell’inizio del vasto campo di grano.Edith viene accolta con affettuosa cortesia. Il colloquio è semplice, schietto: Edith espone le sue conoscenze circa le opere del maestro Husserl e Reinach la ammette alle sue esercitazioni, livello “progrediti” . Così poi Edith commenta l’incontro:
“Dopo quel primo incontro mi sentivo molto contenta e piena di gratitudine. Mi sembrava di non aver mai conosciuto una persona che mi fosse venuta incontro con tanta bontà disinteressata. Che i parenti più prossimi e gli amici che lo conoscevano da anni gli dimostrassero tanto affetto, mi appariva del tutto ovvio. Ma qui si celava qualcosa di molto diverso. Era il primo sguardo in un mondo completamente nuovo”.
Reinach è persona da ricordare, perché la sua precoce morte segnerà in profondità Edith, come a tempo debito vedremo.
Il secondo aspetto riguarda la “Società filosofica”, in cui lo stesso Reinach si era offerto di introdurre Edith; di fatto a presentarla sarà poi l’amico Georg Moskiewicz.
Così Edith ne parla:
“I fondatori della Società filosofica non presenziavano più alle riunioni. Reinach non veniva più da quando era docente e si era sposato. Conrad e Hedwig Martius, dopo il loro matrimonio, vivevano tra Monaco di Baviera e Bergzabern (nel Palatinato). Dietrich von Hildebrand era andato a Monaco di Baviera, Alexander Koyrè a Parigi. Johannes Hering voleva sostenere gli esami di Stato l’estate successiva es era tornato a casa sua, a Strasburgo, per lavorare indisturbato. C’erano però alcune persone che per semestri avevano lavorato con questi corifei ed ora erano in grado di trasmettere la tradizione a noi novellini”.
Grazie a queste brevi righe di Edith abbiamo potuto conoscere la prima cerchia di fenomenologi, quelli della prima ora, cresciuti direttamente come primizia all’ombra del maestro Husserl. Interessante notare i coniugi Martius, nella cui casa a Bergzabern Edith leggerà la biografia di Teresa d’Avila.
Dunque Edith viene introdotta nella Società filosofica come membro della seconda generazione di fenomenologi. Così descrive il suo ingresso:
“Subito dopo l’arrivo di Moskiewicz a Gottinga, ebbe luogo anche la prima seduta semestrale della «Società filosofica». Era costituita dalla cerchia più ristretta dei veri e propri seguaci di Husserl, e si riuniva una sera alla settimana per discutere di determinate questioni. Rose e io non avevamo idea di quanto fosse ardito da parte nostra unirci subito a questi eletti. Poichè Mos trovava ovvio che andassimo con lui, anche noi la pensavamo alla stessa maniera. Di solito, prima di venire a sapere di questa istituzione, potevano passare diversi semestri e quando si era introdotti in questa cerchia si stava a sentire in rispettoso silenzio prima di azzardarsi ad aprir bocca. Io invece partecipai subito vivacemente alla discussione”.
Edith, come sempre, vive con passione ogni sua scelta, da protagonista!
Membri di questa Società filosofica sono persone per le quali la filosofia è il vero e proprio elemento vitale, sebbene magari studino anche altre materia; vi sono però anche persone che vivono una realtà esattamente opposta, cioè persone per le quali di fondamentale importanza è un altro campo di studi, che però viene come fecondato dalla fenomenologia. Tra i membri della Società filosofica vi è anche Hans Lipps, altra persona che diventerà importante per Edith, dal punto di vista affettivo.
Terzo aspetto, l’autore dell’opera scelta come argomento di discussione della Società filosofica: Max Scheler, “Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori”. Scheler esercita una influenza molto forte sui giovani fenomenologi, su alcuni addirittura più del maestro Husserl. Le descrizione che Edith fa di lui è talmente brillante che vale la pena leggerla:
“In quel semestre la Società filosofica lo invitò a Gottinga per un paio di settimane a tenere conferenze. (...) Finita la parte ufficiale, rimaneva per ore nel caffè a parlare con una cerchia più ristretta. Ho preso parte solo una o due volte a queste riunioni più tarde. Per quanto fossi intenta a carpire il più possibile dagli stimoli oggettivi, c’era tuttavia qualcosa che mi dava fastidio: il tono nel quale si parlava di Husserl. Scheler era naturalmente aspramente contrario alla svolta idealistica e si esprimeva quasi in tono di superiorità; alcuni dei giovani si permettevano allora un tono ironico e ciò mi indignava come una mancanza di rispetto e di gratitudine. I rapporti tra Husserl e Scheler non erano del tutto sereni. Scheler non perdeva occasione per ribadire che non era allievo di Husserl, ma aveva trovato personalmente il metodo fenomenologico (...). La facilità con cui Scheler accoglieva stimoli esterni è nota a tutti coloro che lo hanno conosciuto o che hanno letto attentamente i suoi libri. Accoglieva da altri delle idee che poi trovavano sviluppo dentro di lui, senza che lui stesso si accorgesse di essere stato influenzato. In tutta coscienza poteva affermare che era tutta farina del suo sacco. A questa competizione per la precedenza, Husserl aggiungeva una coscienziosa preoccupazione per i suoi allievi. Si impegnava molto per educarci a una rigida oggettività e precisione, ad una «radicale onestà intellettuale». Ma la maniera che aveva Scheler di diffondere sollecitazioni geniali senza approfondirle sistematicamente, aveva qualcosa di brillante e seducente. Per di più, egli parlava di questioni aderenti alla realtà, che sono importanti per ognuno e che agitano in particolare l’animo dei giovani, non come Husserl che trattava di cose astratte e fredde. (....) Alla prima impressione Scheler era affascinante. Non mi è più capitato di vedere in un uomo un’espressione così pura del «fenomeno della genialità»”.
Innanzitutto vale la pena sottolineare, anche se ormai non è più cosa nuova, la pulizia relazionale di Edith: non approva coloro che si fermano a chiacchierare con Scheler nel caffè, dopo la relazione ufficiale, non perché manifestano opinioni diverse da quelle del maestro Husserl, ma perché usano toni ironici e assumono atteggiamenti di superiorità, sono ingrati e irriverenti verso colui che comunque è maestro.
Una seconda sottolineatura, Edith coglie molto bene il punto debole di Scheler: è persona facilmente influenzabile, ma non ne è consapevole, al punto che ritiene farina del suo sacco ciò che in realtà proviene dalla stimolazione di altri. Edith però non gli punta il dito contro, anzi, pare quasi giustificarlo, mettendosi dal punto di vista dell’altro, in questo caso di Scheler.
Terza sottolineatura: sebbene Edith mostri di apprezzare come assolutamente valida l’azione educativa di Husserl alla radicale onestà intellettuale, riconosce che il suo maestro tratta di questioni lontane dal vissuto concreto dei giovani, mentre riconosce a Scheler la geniale capacità di saper entrare in contatto con le persone toccando argomenti di vitale interesse.
Riprendiamo ora la lettura delle righe di Edith, perché vi sono due passaggi di estrema importanza.
“In quei giorni parlò anche delle questioni che formavano il tema del suo libro, da poco pubblicato, «Sulla fenomenologia e teoria del sentimento di simpatia». Per me esse assunsero un’importanza particolare, perché cominciai proprio allora ad occuparmi del problema della «Einfühlung». (...) Per me, come per molti altri, la sua influenza in quegli anni acquistò importanza anche al di là dell’ambito filosofico. Non ricordo in quale anno Scheler sia entrato nella Chiesa cattolica. Non doveva essere da molto. In ogni caso, in quel periodo, aveva molte idee cattoliche e sapeva divulgarle facendo uso della sua brillante intelligenza e abilità linguistica. Fu così che venni per la prima volta in contatto con un mondo che fino ad allora mi era stato completamente sconosciuto. Ciò non mi condusse ancora alla fede, tuttavia mi dischiuse un campo di «fenomeni» dinanzi ai quali non potevo più essere cieca. Non per niente ci veniva continuamente raccomandato di considerare ogni cosa con occhio libero da pregiudizi, di gettare via qualsiasi tipo di «paraocchi». I limiti dei pregiudizi razionalistici, nei quali ero cresciuta senza saperlo, caddero, e il mondo della fede comparve improvvisamente dinanzi a me. Persone con le quali avevo rapporti quotidiani e alle quali guardavo con ammirazione, vivevano in quel mondo. Doveva perciò valere la pena almeno di riflettervi seriamente. Per il momento non mi occupai metodicamente di questioni religiose; ero troppo occupata in molte altre cose. Mi accontentai di accogliere in me senza opporre resistenze gli stimoli che mi venivano dall’ambiente che frequentavo e - quasi senza accorgermene - ne fui pian piano trasformata”.
Qui due le importantissime sottolineature: la prima, riguardo il primo approccio a quello che sarà poi la peculiarità di Edith, il problema dell’ «Einfühlung», noto in italiano come “empatia”; la seconda, lo spalancarsi della questione della fede e della conseguente esperienza religiosa come fenomeno che appare alla coscienza e con cui, per onestà intellettuale, non puoi non fare i conti. E’ esattamente questo uno dei passaggi che motivano il titolo di queste nostre conversazioni: “Il castello della coscienza”. Accogliendo la metafora teresiana del “castello interiore”, alla 6° stanza puoi giungere non solo percorrendo il sentiero della preghiera, ma anche con le sole forze umane, basandoti sulla rigorosa formazione della coscienza, sulla onesta ricerca intellettuale, sull’apertura della mente all’intero mondo dei fenomeni, senza “paraocchi”, come insegnava Husserl.
Ultimo aspetto che ci siamo proposti di sottolineare, l’incontro personale di Edith col venerato maestro Husserl. Il primo contatto è in aula universitaria, ove si radunano tutti gli studenti che desiderano essere ammessi al seminario di filosofia del maestro. Lì Husserl è solito tenere una discussione generale, cui fa seguire un incontro personale a casa propria con ciascuno sei partecipanti. E’ l’inizio di una relazione assai feconda. Al seminario viene discussa l’ultima opera editata dal maestro, intitolata “Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica”. Un pomeriggio alla settimana poi Husserl si rende disponibile per incontrare uno a uno i suoi studenti e discutere con ciascuno dell’opera in questione. Oltretutto il testo è particolarmente delicato perché segna come un passaggio evolutivo nella visione fenomenologica di Husserl, che però alcuni dei suoi primi allievi di Gottinga, realisti convinti, percepiscono come una sorta di ritorno all’idealismo (sebbene assai diverso da quello di matrice kantiana: non entriamo però in questo ambito specificamente filosofico) e per questo motivo, pur con rincrescimento, non seguono più il maestro in maniera così ravvicinata. Edith, sedotta da questo fermento, intuisce che non è possibile concludere già l’esperienza di Gottinga. In più un lavoro fatto per il corso di storia con Max Lehmann, con qualche piccolo ritocco, può diventare materiale per l’esame di Stato: come lasciar perdere l’occasione? Risolutamente decide non solo di fermarsi ancora a Gottinga, ma di chiedere a Husserl la tesi di laurea. E’ richiesta coraggiosa, perché gli altri studenti frequentavano per anni i corsi del maestro prima di azzardare ad inoltrarsi in un lavoro personale! Husserl non respinge la richiesta, ma permette a Edith di scegliere l’argomento e di cominciare a lavorarci sopra.
Ascoltiamo il racconto che ne fa Edith:
“Ora la questione era l’argomento da scegliere. Su questo punto non mi trovavo in imbarazzo. Nel suo seminario sulla natura e lo spirito, Husserl aveva parlato del fatto che un mondo esterno oggettivo poteva essere conosciuto solo in modo intersoggettivo, cioè da una maggioranza di individui conoscenti che si trovino tra loro in uno scambio conoscitivo reciproco. Di conseguenza, è permessa una esperienza di altri individui. Collegandosi alle opere di Theodor Lipps, Husserl chiamava Einfühlung questa esperienza, ma non dichairava in cosa consistesse. C’era perciò una lacuna che andava colmata: io volevo ricercare che cosa fosse l’Einfühlung. Ciò non dispiacque al maestro. malgrado ciò dovetti ingoiare un’altra pillola amara: egli voleva che io svolgessi la tesi come confronto critico con Theodor Lipps. Per la verità aveva piacere che i suoi allievi nelle loro tesi mettessero in chiaro il rapporto della fenomenologia con le altre tendenze filosofiche significative dell’epoca. A lui personalmente premeva poco. Era troppo pieno delle sue idee per poter impiegare il tempo nella discussione con gli altri. Tuttavia, questa richiesta non incontrava molto favore neppure da parte nostra. Era solito dire sorridendo: «Io educo i miei allievi a divenire filosofi sistematici e poi mi meraviglio se non vogliono fare lavori di storia della filosofia». Sul primo punto, però, era irremovibile. Dovevo ingoiare l’amara pillola, cioè studiare a fondo la lunga serie delle opere di Theodor Lipps”.
Con questo Edith entra a pieno titolo nel mondo della fenomenologia: allieva di Husserl, porterà il suo contributo peculiare proprio riguardo l’interessantissimo tema dell’ Einfühlung, cioè dell’empatia.
Il 2° paragrafo del 7° capitolo si apre con la descrizione delle vacanze estive - siamo nell’agosto del 1913 -, che Edith sceglie di trascorrere in famiglia, a Breslavia. In realtà quella non è una estate uguale a tutte le altre. Ricorre infatti il centenario delle guerre di liberazione e a Breslavia non poche sono le manifestazioni celebrative organizzate; Edith vi prende parte.
Tornare a Breslavia è però soprattutto tornare in famiglia e comunicare la decisione di restare a Gottinga a studiare, invece di rientrare dopo i 6 mesi come programmato.
Ecco come Edith ne parla:
“A casa mi accolsero con sincero affetto. I miei progetti per il futuro non incontrarono alcuna resistenza. Non avevo più neppure l’impressione che mia madre soffrisse del fatto che studiavo fuori (...) Tra i vecchi amici il mio cammino nelle scienze fece un po’ sensazione, ma ora come un tempo la cosa era «data per scontata»”.
Nella seconda metà di ottobre perciò fa ritorno a Gottinga, giusto qualche giorno prima dell’inizio delle lezioni, anche per sistemarsi come alloggio. L’amica Rose non è più con lei... ed Edith ne sente la mancanza. Al proposito dice:
“Durante questo inverno fui molto sola. Per tutto il tempo che Rose aveva vissuto con me non avevamo mai sentito nostalgia di casa. Sentivo molto la sua mancanza. Evitavo di percorrere la Lange Geismarstrasse, poiché la vista della nostra vecchia casa mi faceva troppo male. Per questo non me la sentivo neppure di andare a trovare i nostri buoni affittuari precedenti. Il fedele Danziger mi veniva a prendere per le passeggiate domenicali. Ora non potevo prendere tanto tempo come prima, poiché ero totalmente assorbita dal mio grande programma di lavoro. Inoltre, devo confessare che il buon giovanotto mi annoiava un poco”.
Edith partecipa anche, come ospite, durante l’estate, al seminario di Reinach; ora che l’orario glielo permette, va anche alle esercitazioni invernali. Edith fa una affermazione molto bella al proposito. Dice:
“Ascoltarlo era una gioia pura”.
Da questo si comprende quanto Edith viva il suo penetrare nel mondo della fenomenologia come una questione esistenziale, che la coinvolge a tutti i livelli: non solo di pensiero, ma anche di emozione e di relazione. Così descrive gli incontri invernali:
“Reinach teneva le esercitazioni nel suo appartamento. Poiché il seminario di Husserl si svolgeva immediatamente prima, c’era sempre una corsa di 20 minuti su allo Steingraben. Le ore trascorse in quello studio elegante furono le più felici di tutto il periodo che vissi a Gottinga. Eravamo tutti pienamente convinti di apprendere moltissimo dal punto di vista metodico durante quelle lezioni. Reinach discuteva con noi le questioni che lo impegnavano personalmente nel suo lavoro di ricerca: durante quell’inverno, il problema del movimento. Non era un insegnare e apprendere, ma una ricerca comune, simile a quella che si svolgeva nella Società filosofica, e tuttavia guidata dalla mano di un direttore sicuro. Tutti avevamo un profondo rispetto per il nostro giovane insegnante; non era facile che qualcuno osasse dire una parola affrettata, io stessa non avrei osato aprir bocca senza essere stata interrogata”.
Questo passaggio è molto importante. Possiamo fare alcune sottolineature:
La ricerca esistenziale, nella sua dimensione personale, non è però una idilliaca passeggiata tra campi fioriti! Al contrario, essa richiede uno scavo interiore profondo spesso doloroso, perché richiede il superamento di difese, di luoghi comuni, andare oltre i pregiudizi... Edith ha conosciuto molto bene questo dolore e così ne parla (il contesto è la sua ricerca sull’empatia):
“Per la prima volta sperimentai qualcosa che avrei sempre ritrovato nel mio lavoro: i libri non mi servivano a nulla finché non avessi chiarito la questione con un lavoro personale. Questa lotta per la chiarezza si compiva in me solo con grandi tormenti e non mi dava pace giorno e notte. Disimparai a dormire e ci vollero molti anni prima che mi fossero di nuovo concesse notti tranquille. Sprofondavo sempre più in una autentica disperazione. Era la prima volta in vita mia che mi trovavo di fronte a qualcosa che non potevo ottenere con la mia volontà (...) Ciò mi condusse a un punto tale che la vita mi apparve insopportabile. Spesso dicevo a me stessa che tutto ciò non aveva senso. Se non avessi portato a termine la tesi di laurea, il lavoro sarebbe bastato per l’esame di Stato; e se non una grande filosofa, forse sarei potuta diventare un’abile insegnante. Ma le considerazioni razionali non servivano a nulla. Non riuscivo più a percorrere una strada senza avere il desiderio che una macchina mi investisse. E quando facevo una gita, speravo di precipitare e restare morta. Nessuno intuiva nulla dal mio aspetto. Nella Società filosofica e al seminario di Reinach ero contenta per il lavoro comune; temevo soltanto la fine di quelle ore, nelle quali mi sentivo protetta, e il ricominciare delle mie solitarie battaglie”.
Edith, ormai la conosciamo, non è persona iperemotivizzata, facile a lasciarsi andare a eccessi; al contrario, è persona molto sobria e molto equilibrata, quindi possiamo comprendere verso quali profondità interiori stia scavando, per far sgorgare dal centro di sé una fonte autenticamente sorgiva.
Sottolineerei poi una espressione che potrebbe facilmente essere fraintesa. Edith tenta di trovare serenità nel pensiero di poter diventare un’abile insegnante, casomai fallisse come filosofa. Per interpretare correttamente questa affermazione è necessario rifarsi a quanto da lei detto al momento della scelta della facoltà universitaria, quando lo zio David tentava di influenzarla, come peraltro aveva con successo fatto con Erna. Edith aveva scritto:
“Siamo al mondo per servire l’umanità... Questo si può fare nel migliore dei modi, facendo qualcosa per cui si ha una vera predisposizione…”.
Il punto dunque è proprio far sgorgare dal profondo di sé quella eccellenza personale che ha per finalità non la vanagloria, ma il servizio al prossimo. Per questo per Edith è importante essere filosofa fenomenologa, perché ha riconosciuto essere quella la sua identità autentica.
Il punto di crisi di Edith é riuscire a dare una adeguata definizione di “intuizione”.
Ne parla con l’amico Hans Lipps; l’effetto non è dei migliori.
Così commenta:
“La conversazione con Lipps ebbe un effetto deprimente su di me. In confront a lui mi sentivo ancora una novellina nel campo della fenomenologia, e si rafforzò in me l’impressione di essermi imbarcata in un’impresa che andava oltre le mie forze”.
A peggiorare la situazione la notizia che di lì a poco Hans avrebbe lasciato Gottinga. Dice:
“Mi dispiacque molto apprendere questa notizia. Pensai che mi sarei sentita ancora più sperduta quando non ci fosse più stata la possibilità di veder comparire da qualche parte la sua alta figura e la sua giacca blu marino”.
In realtà il Maestro Husserl di tanto in tanto si informa come va il lavoro; Edith tenta di aggiornarlo, ma Husserl in realtà si mostra incapace di ascolto:
“Durante il semestre, Husserl chiese talvolta conto dei progressi del mio lavoro. Allora dovevo andare da lui, di sera. Ma questi colloqui non portavano chiarimenti. Dopo che avevo pronunciato qualche parola, egli si sentiva stimolato a parlare e lo faceva per così tanto tempo, che alla fine era troppo stanco per proseguire la conversazione. Io continuavo e potevo dire a me stessa che avevo imparato qualcosa, ma poco riguardante al mio lavoro. Così si svolgevano abitualmente anche le sue sedute semestrali”.
Un suggerimento decisivo le viene offerto dall’amico Mos:
“L’unico a sapere che non ero contenta dell’andamento del mio lavoro - pur non immaginando i tormenti interiori che mi procurava - era Moskiewicz. Il poveretto non poteva certamente aiutarmi, ma qualche settimana prima della conclusione del semestre mi disse: «Perché non va da Reinach?». E cercò di persuadermi, fintanto che decisi di seguire il suo consiglio”.
Così Edith descrive il suo rivolgersi a Reinach:
“Cominciarono le vacanze, e Gottinga si svuotò. Restai sola, seduta alla scrivania nella mia stanzetta. Poiché non avevo più lezioni, potevo scrivere quasi senza interruzione. In una settimana avevo finito. Erano circa le 8 di sera, una pioggia sottile cominciò a cadere. Ma io non riuscivo a restare nella stanza, dovevo uscire e appurare quando Reinach sarebbe arrivato. Arrivata allo Steingraben, vidi un taxi che veniva dalla Friedländerweg, voltò e andava su per la strada. Si fermò di fronte alla casa di Reinach - qualche momento più tardi, la luce si accese nel suo studio. Ora ero soddisfatta. Feci dietro front e tornai a casa; non so dire con quanta gioia e gratitudine. Ancora oggi, dopo più di vent’anni, avverto ancora qualcosa di quel profondo sospiro di sollievo.
Il mattino dopo, mi trovai sul posto col mio manoscritto e suonai alla porta. Mi aprì lo stesso Reinach. Era solo in casa; sua moglie si trovava a Stoccarda, per stare vicino alla sorella di lui che faceva gli esami di maturità. Pauline era più grande del fratello, e la sua decisione di studiare era giunta così tardi, che era molto faticoso per lei imparare le cose a memoria. Aveva fallito il primo tentativo, e il secondo era perciò tanto più emozionante. Mi trovavo lì da poco, quando il campanello suonò di nuovo e Reinach dovette andare alla porta. Quando tornò, riferì col tono di un bambino che recita un compito imparato a memoria: «Il macellaio! No, non ci serve niente». Auguste glielo aveva raccomandato prima di andare al mercato.
Questa volta non ero tanto impaurita come al primo esame. Reinach fu molto soddisfatto. Gli chiesi se la tesi sarebbe andata bene per l’esame di Stato. O, certo! Husserl ne sarebbe stato contento. Non riceveva spesso tesi di quel genere. Ora sarei potuta andare in vacanza senza alcun pensiero. Ci dicemmo lietamente arrivederci ad aprile.
Dopo queste due visite a Reinach mi sentii come rinata. Tutto il tedio di vivere era scomparso. Colui che mi aveva tratto in salvo dalle difficoltà mi appariva come un angelo buono. Mi sembrava che con una parola magica egli avesse trasformato la mostruosa creazione della mia povera testa in un tutto chiaro e ordinato. Non dubitavo della attendibilità del suo giudizio”.
E’ un passaggio davvero molto coinvolgente questo, che ci mostra con evidenza da un lato quanto faticoso possa essere la ricerca personale, ma dall’altro quanto importante sia non camminare mai da soli, ma avere sempre una persona cui fare riferimento.
Terminiamo questo passaggio con queste bellissime parole di Edith, che ci testimoniano quanto la ricerca esistenziale coinvolga tutte le fibre dell’essere:
“Credo che qualcuno che non abbia personalmente lavorato a qualcosa di filosoficamente creativo, se ne possa difficilmente fare un’idea. A questo proposito, non ricordo di aver provato già un poco di quella felicità profonda che in seguito mi sarebbe sempre accaduto di sentire, una volta superatele prime e più dure fatiche”.
Il paragrafo 3 del 7° capitolo è invece molto lineare, non così complesso come i due che l’hanno preceduto. Qui Edith presenta gli amici che frequenta al ritorno dalle vacanze.
La prima, degna di particolare nota, è Tony Meyer.
Amica e coetanea di Mos, era stata da lui introdotta alla fenomenologia; aveva poi maturato il desiderio di abbeverarsi direttamente alle fonti e per questo era venuta a Gottinga. In realtà aveva prima collaborato con lo psicologo Stern - quello stesso con cui Edith avrebbe dovuto redarre la tesi - curando l’edizione del volume “Dalla stanza dei bambini”. Non era in possesso della licenza liceale, quindi poteva assistere alle lezioni solo dietro permesso personale dei docenti; Husserl e Reinach glielo avevano accordato. A Edith viene chiesto di dedicarle delle ore per aiutarla a superare le normali difficoltà dei principianti. In realtà nasce tra loro, nonostante la notevole differenza di età, una bella amicizia. Così Edith ne parla:
“Le mie abitudini la spaventavano: il lungo orario lavorativo, il sonno breve, l’indifferenza per il cibo, lo scarso rilassamento. La signora presso cui abitava le raccomandò una buona mensa privata sul Friedländerweg e lei mi pregò di mangiare là anch’io. Poiché non ero ostinata nelle cose che reputavo di secondaria importanza, acconsentii senz’altro. Il più delle volte veniva a prendermi e mi accompagnava a casa. Poi mi chiese anche il permesso di potermi venire a prendere per una breve passeggiata serale. Dopo un po’, durante una di quelle passeggiate, mi disse che era tanto felice di aver cominciato questa amicizia e doveva dirmi qualcosa che forse mi avrebbe indotto a interrompere i rapporti con lei. Di tanto in tanto aveva avuto disturbi mentali; la facilità con cui si stancava e altri disturbi, come, ad es., le nevralgie alla testa e al braccio, le inibizioni nella deambulazione vi erano correlate. La malattia le aveva anche reso impossibile studiare regolarmente e sostenere gli esami. Potei tranquillamente replicare che il fatto mi era noto da tempo (mia madre l’aveva saputo da un amico in affari, che aveva rapporti più intimi con la famiglia Meyer) e che non mi spaventava minimamente. Ciò le tolse evidentemente un peso dal cuore. Solo adesso poteva godere senza ombre delle gioie dell’amicizia. Considerava già un grande regalo che una persona giovane e dalle buone doti avesse rapporti con lei come con un suo pari. Oltre a ciò, aveva già concepito una grande inclinazione nei miei confronti e una stima tale per cui era piena di ammirazione per me, che pure ero tanto più giovane. Ciò probabilmente dipendeva dal fatto che tutti i sentimenti in lei erano intensificati a causa della sua condizione mentale. Tuttavia, da ciò le derivava una grande sensibilità nei riguardi delle debolezze altrui e una mancanza di freni nel manifestare le sue opinioni”.
E’ evidente la delicatezza con cui Edith presenta questa persona, che con sincerità aggiunge alla cerchia delle sue amicizie, al punto tale che riconosce non solo di dare, ma anche di ricevere calore da questo rapporto. Più in là infatti scrive:
“Le amorevoli cure di cui Toni mi circondava - aveva ad esempio scoperto un vivaio nelle nostre vicinanze e provvedeva affinché la mia stanza avesse fiori freschi - la sua calorosa partecipazione a tutto ciò che mi riguardava contribuirono sicuramente a far sì che quell’estate fosse nuovamente piena di sole, per me. Naturalmente, a ciò si aggiungeva che mi ero liberata dal gravoso fardello dell’inverno. C’era sì da affrontare una grande mole di lavoro per l’esame orale, oltre al rimaneggiamento della tesi per l’esame di filosofia con riguardo ai cambiamenti dell’argomento, ma tutto questo era un gioco da ragazzi in confronto a ciò che avevo passato. Una agevolazione essenziale, riguardo alla pura operazione di mandare a memoria la materia d’esame, fu costituita dalla presenza di alcune compagne di studio”.
Come si può vedere, Edith non solo non trascura nessun aspetto della sua umanità, ma dimostra con chiarezza di vivere il valore dello studio in maniera non autoreferenziale, bensì all’interno di relazioni amicali significative.
Queste amiche sono:
Con questo si chiude il paragrafo 3.
Il 4° paragrafo si apre con la notizia del regicidio serbo, dunque con la grande domanda sullo scoppio della 1° Guerra Mondiale. Questo avvenimento sconvolge non poco la serena vita studentesca di Edith e dei suoi compagni di studio a Gottinga. Nei giorni successivi la tensione, per le strade di Germania, aumenta. Edith si tiene informata, sensibile come è a tutte le vicende sociali. Ogni sera infatti attende presso l’edicolante l’arrivo del quotidiano “B.Z. am Mittag”. Per il resto continua a vivere l’attimo presente.
Così ella lo narra:
“L’agitazione aumentava di giorno in giorno. Tuttavia, già allora mi comportai allo stesso modo in cui avrei usato fare in seguito molto consapevolmente in giorni di crisi: rimasi tranquilla al lavoro, pur essendo intimamente pronta a interromperlo in ogni momento. Mi dava fastidio accrescere la generale agitazione andando di qua e di là, o facendo chiacchiere inutili. Mi è sempre piaciuto leggere in Omero come Ettore indirizzi sua moglie alla casa e al lavoro, dopo aver preso per sempre congedo da lei e dal figlioletto”.
Il 30 luglio 1914 alla bacheca dell’Università viene affisso l’avviso di sospensione delle lezioni perché è stato dichiarato lo stato di guerra. Moltissimi studenti tornano immediatamente a casa, lasciando Gottinga. Il cugino di Edith, Richard, riceve la cartolina precetto. temendo il blocco delle ferrovie per il traffico privato, vuole che la moglie Nelli torni immediatamente a Breslavia da suo padre e chiede a Edith se anche lei vuole partire. Bellissimo come Edith descrive la sua decisione:
“Volevo partire anch’io? Riflettei un momento. Gottinga si trovava nel cuore della Germania, e le possibilità di trovarsi a faccia a faccia con il nemico erano scarse, a meno che non si fosse trattato di prigionieri. Breslavia, invece, era a poche ore dal confine russo ed era la più importante roccaforte dell’est; non si poteva escludere che sarebbe stata presto occupata dalle truppe russe. La mia decisione era presa. Chiusi il «Mondo come volontà e rappresentazione” [il volume di Schopenhauer che stava leggendo, ndr]; stranamente non ho più ripreso quel libro. Erano circa le 5, il nostro treno partiva alle 8”.
Edith non pensa a sé, a come garantirsi un posto sicuro (quale il restare nel cuore della Germania avrebbe potuto essere); Edith è donna di frontiera, per questo torna a Breslavia.
Prima però passa a salutare Reinach. E’ un incontro commuovente... soprattutto se si pensa che i due non si vedranno in realtà più, perché il giovane filosofo morirà al fronte.
Leggiamo da Edith stessa:
“Si informò sulle mie intenzioni. Volevo entrare nella Croce Rossa. Lui non aveva fatto il servizio militare, ma si sarebbe ovviamente presentato come volontario, e se non avessero voluto accettarlo, il generale von Gründell, che ora sarebbe rientrato in servizio, avrebbe dovuto aiutarlo. Si appuntò il mio indirizzo: volevamo informarci a vicenda di ciò che sarebbe stato di noi. Per la prima volta, mi apparve chiaro che la sua gentilezza nei miei confronti non scaturiva solo da un generico umanitarismo, ma da una sincera inclinazione amichevole”.
Edith non si smentisce. C’è una sorta di doppio filo rosso che lega le sue scelte: la ricerca della verità e il servizio all’umanità. Già la scelta della professione, come a suo tempo avevamo visto, era stata fatta alla luce del contributo da dare all’umanità. Ugualmente qui, in questa circostanza, sceglie di mettersi da parte per servire, entrando nella Croce Rossa.
La sera successiva, ormai a Breslavia nella casa materna, coricata nel suo letto, non riesce a prendere sonno. Così racconta:
“Ma al sonno non c’era neppure da pensare. Sentivo una stanchezza febbrile, tuttavia guardavo le cose in faccia con grande chiarezza e risolutezza. «Ora non ho più una vita personale», dissi a me stessa. «Tutte le mie forze appartengono a questo grande evento. Quando la guerra sarà finita, se sarò ancora viva, allora potrò pensare di nuovo alle mie faccende private»”.
Questo è un aspetto caratteristico di Edith, non solo il servizio all’umanità, ma una sensibilità per la “cosa pubblica”. Successivamente rifletterà proprio sullo Stato, sulla sua funzione e la sua missione.
A Breslavia viene a sapere dalla amica Rose - quella che era stata con lei 6 mesi a Gottinga - che era stato istituito un corso di assistenza ai malati per studentesse. Immediatamente si iscrive, assiste alle lezioni sulla chirurgia e le epidemie da guerra, impara a fare fasciature e iniezioni. Integra poi con i manuali e gli appunti della sorella Erna, medico. Va poi da quest’ultima alla clinica ginecologica per esercitarsi nei parti.
Dando la disponibilità per la Croce Rossa, Edith è di nuovo di fronte a una scelta.
Ecco come la narra:
“Durante il corso dovevamo dichiarare se, nel caso volessimo metterci a disposizione della Croce Rossa, la nostra disponibilità si limitasse solo al territorio di Breslavia, al paese, o fosse senza condizioni. Naturalmente, diedi la mia disponibilità incondizionata. Non avevo infatti altro desiderio che andare il più lontano possibile nel più breve tempo possibile, preferibilmente al fronte, in un ospedale da campo”.
Le cose però si prolungano. Edith ne approfitta per continuare la sua preparazione frequentando il reparto dei tubercolotici prima, e dei bambini investiti poi ed infine al policlinico chirurgico.
Siccome nessuna convocazione dall’ospedale militare arriva, Edith decide di riprendere in mano i suoi lavori, perché il lavoro per l’esame di Stato va consegnato per novembre.
Così Edith racconta:
“Pensai che se per il momento non potevo essere impiegata al <<servizio dell’esercito>>, la cosa più intelligente da fare era andare a Gottinga e sbrigare gli esami durante l’attesa. Il mio atteggiamento non era minimamente mutato. In qualsiasi giorno sarei stata contenta se qualcuno mi avesse richiamato dai libri. L’esame mi sembrava qualcosa di ridicolmente insignificante in paragone agli avvenimenti in quel periodo, che naturalmente ci tennero in ansia per tutti quei mesi”.
I russi varcano il confine dell’Alta Slesia, ma vengono prontamente respinti. Edith segue l’avanzata delle forze tedesche in Francia, come anche il rovescio della prima battaglia della Marna.
I suoi fratelli non vengono chiamati al fronte, al contrario di quasi tutti i suoi compagni di studio di Gottinga. Molti di loro partecipano alle battaglie più roventi nelle Fiandre.
Giunge anche il primo annuncoi di morte: Robert Staiger, libero docente di storia dell’arte e direttore dell’orchestra accademica di Gottinga.
Anche l’amico canadese Bell, membro del Circolo Fenomenologico, essendo appunto canadese, era stato messo in prigione. Edith non tarda ovviamente ad andarlo a visitare. Dopo poco però viene trasferito nel campo di concentramento di Ruhleben, ove resta fino alla fine della guerra.
Tornando a Gottinga, Edith va ad alloggiare nella casa del cugino Richard, che è al fronte.
Sebbene abbia l’intera casa a sua disposizione, Edith si sistema nello studio di Richard e nella annessa camera da letto.
Prende contatto con la domestica che già prima lavorava per Richard e Nelli, in modo che questa si occupi della pulizia dell’intero appartamento.
Si presta poi a sbrigare delle faccende per i cugini e per spedire al fronte quanto Richard domanda.
Riprende poi i contatti con Pauline Reinach, rimasta sola a Gottinga, essendo la moglie di Reinach trasferitasi dai suoi genitori. Alle due si aggiunge poi Erika Gothe, anch’ella membro del Circolo Fenomenologico. Erano loro le uniche tre persone tornate a Gottinga tra quelle della cerchia più vicina a Husserl.
Riguardo a queste amicizie, Edith ha parole molto delicate. Dice infatti:
“Malgrado le pesanti preoccupazioni per la guerra, quell’inverno fu probabilmente il periodo più felice dei miei anni di studio a Gottinga. l’amicizia con Pauline ed Erika era più profonda e bella delle antiche amicizie nate dagli studi. Per la prima volta non fui io a essere corteggiata e a dominare sugli altri, ma vedevo in loro qualcosa di meglio e di più elevato rispetto a me”.
E’ molto interessante quest’ultima annotazione e ci svela un tratto fondamentale dell’interiorità di Edith.
E’ certamente vero che è una persona libera, decisa e anche con un certo tratto di dominazione sugli altri; per la sua vivacità intellettuale è interessante e forse seducente. Sa di esercitare attrazione sulle altre persone, non vi si sottrae ma usa di questa sua caratteristica non per legare a sé gli altri, ma per aiutarli a camminare verso la maturità. Non fa inoltre differenza tra le persone, è disponibile verso tutti. Questo però non significa che tali relazioni appaghino il suo cuore. Come qui viene mostrato, a Edith non piace essere al centro. Se lo fa, è solo per servire, ma il suo animo cerca rapporti in cui a prevalere sia la reciprocità, l’arricchimento scambievole, il godere l’uno dei doni dell’altro. Sebbene non le manchino doti da leader, Edith preferisce la condivisione fraterna, il calore dell’amicizia serena.
Successivamente, per motivi di studio alle 3 si aggiunge anche Liane, che Edith aveva intravisto al seminario di Husserl e alla Società filosofica. Aveva la tesi di laurea con il filosofo Maier, ma per la filosofia non pareva avere grandi doti, come in realtà per lo studio in generale. Aveva invece grande talento nel rendere accogliente la casa e nell’instaurare relazioni umane. Edith non si sottrae a questa amicizia e neppure alla possibilità di studiare con lei.
Nell’Ateneo di Gottinga le lezioni riprendono, sebbene gli studenti non siano molti. Troviamo una annotazione interessante. Scrive Edith:
“Durante quell’inverno il seminario di Husserl era quasi deserto. Al principio, tra i vecchi conoscenti, tornò solo il germanista Günther Müller. Nel corso del semestre arrivò anche il polacco Roman Ingarden, che era stato nella legione polacca, ma che dovette essere congedato perchè sofferente di un difetto cardiaco. In passato si era sempre appoggiato ai suoi connazionali. Ora era solo ed era contento di poter scambiare qualche parola con noi”.
Roman Ingarden è nome certamente noto a chi ha letto qualcosa di Giovanni Paolo II: i due infatti si conoscevano personalmente, avendo tra l’altro Ingarden insegnato all’Università Jagellonica di Cracovia, ove anche il Pontefice studiò.
Il volume 4 dell’opera omnia tedesca di Edith raccoglie il carteggio tra lei e Ingarden. In italiano la Libreria Editrice Vaticana, nel 2001, ha pubblicato il volume Edith Stein, Lettere a Roman Ingarden 1917-1938.
Si avvicina il tempo natalizio. Con le amiche Edith prepara dei pacchi per il fronte, in particolare per Reinach, Kaufmann e Hans Gothe.
Liane, Erika e Pauline tornano poi a casa; Edith resta a Gottinga. Le amiche le regalano un alberello natalizio, il primo che lei riceve. Così commenta il fatto:
“Doveva consolarmi quando avrei festeggiato da sola la Notte Santa. Era il primo alberello addobbato che avessi ricevuto in vita mia. Con gioia e gratitudine ho acceso le candele. Per me non era deprimente restare sola. Fino ad allora non ero stata abituata a festeggiare il Natale e non mi mancava nulla”.
Nelle pagine seguenti Edith poi descrive dettagliatamente il suo esame di Stato.
E’ esonerata dalla prova di “cultura generale”, essendo filosofia e tedesco le sue materie, mentre, in quanto ebrea, non era tenuta a sostenere quello di religione.
Sostiene invece gli esami delle materie di specializzazione: volendo accedere al grado superiore, l’esame è di un’ora per ciascuna materia: tedesco, storia e filosofia. Naturalmente l’esito fu quanto mai eccellente: promossa con lode.
Dopo aver festeggiato con le amiche, Edith si concede qualche giorno di riposo e raggiunge 2 delle sue sorelle. Così scrive:
“ Il giorno dopo partii per Amburgo. Mia sorella Rosa era da Else per qualche settimana, ed entrambe furono contente che fossi andata a trovarle per renderle partecipi della mia gioia. Qui ricevetti anche le felicitazioni da Breslavia. La lettera di mia madre conteneva quel passo che ho già citato precedentemente: sarebbe stata ancora più felice se avessi voluto pensare a chi dovevo quel successo. Ma non ero ancora arrivata a quel punto. A Gottinga avevo un profondo rispetto per le questioni di fede e avevo conosciuto persone credenti; a volte andavo addirittura in una chiesa protestante con le mie amiche (la mescolanza di politica e religione che dominava nelle prediche non poteva naturalmente condurmi alla conoscenza di una fede pura e spesso mi ripugnava); non avevo ancora ritrovato la via verso Dio”.
E’ molto interessante questo passaggio. Edith è in autentica ricerca della verità, perciò non esclude dal suo orizzonte né l’esperienza religiosa né il dato della fede (anche perché a Gottinga incontra persone degne di assoluta stima e notevole levatura intellettuale - quale ad esempio Reinach - che sono credenti); tuttavia non forza la sua anima. Da autentica fenomenologa, ella attende che sia Dio a farsi manifesto a lei.
Ci è data qui l’occasione di ridire il concetto centrale che dà proprio il titolo a queste nostre conversazioni: il castello della coscienza.
Il 5° paragrafo termina poi con un quadretto interessante: un battibecco tra Edith e il suo Maestro Husserl. Dopo l’esame di Stato infatti abbiamo detto che Edith festeggia con le amiche e poi va ad Amburgo. E’ sabato. Il mercoledì è di nuovo a Gottinga, puntuale per il seminario. Lo raggiunge in direzione, volendo chiedergli un appuntamento. L’accoglienza però non è delle migliori. Ecco come Edith descrive l’incontro:
“Il maestro, di solito così gentile, era visibilmente di cattivo umore. Avevo fatto un passo falso, non andando a trovarlo subito dopo l’esame. Ora dichiarò che avrebbe voluto dirmi molte cose riguardo alla mia tesi, ma le aveva dimenticate. Non era ancora sufficiente come tesi di laurea (questo non mi era neppure venuto in mente). E dal momento che avevo ottimamente superato l’esame di storia e quello di letteratura, avrei ancora potuto riflettere se non preferissi fare la tesi di laurea in una di queste materie. Non avrebbe potuto offendermi più gravemente. «Signor professore», dissi molto irritata, «per me non ha importanza acquisire il titolo di studio con una tesi di laurea qualsiasi. Io voglio provare se sono capace di fare qualcosa di personale in filosofia». Questo sembrò farlo tornare in sé; la sua irritazione sparì improvvisamente. In tono completamente diverso disse: «Anzitutto lei deve riprendersi, ora, signorina Stein. Ha un aspetto esausto». Io non mi sentivo riconciliata con lui e mi congedai. Il giorno seguente, dopo la lezione, mi aspettò davanti alla porta dell’aula. Sua moglie mi mandava affettuosi saluti e mi invitava a prendere il caffè il pomeriggio di domenica. Dovevamo pur festeggiare un poco l’esame superato”.
Interessante questa reazione di Husserl, così infantile dal punto di vista psicologico, e che in realtà sorprende talvolta anche noi quando non ci sentiamo rispettati nella nostra vera o presunta autorità, oppure quando non ci sentiamo sufficientemente gratificati dalle attenzioni altrui... Riguardo invece alla reazione di Edith... ormai non dovrebbe più stupirci, la conosciamo, sia nelle sue reazioni quando viene punta sul vivo, sia nella sua assoluta non-disponibilità a scendere a compromessi e a patteggiare con alcuno. Edith sa perché studia: per cercare la verità, per dare il suo contributo al bene dell’umanità. Questa coscienza retta la rende salda di fronte a chiunque, anche a una indiscussa autorità quale Husserl poteva essere.