Il 5° capitolo della “Storia di una famiglia ebrea” intitolato “Gli anni di studio a Breslavia”. Edith ha ormai terminato con successo il Liceo Scientifico. Si iscrive così all’Università di Breslavia, la sua città natale. Inizia a frequentare le lezioni il 27 aprile, entusiasta come sempre. Scrive infatti:
“ Fu un bene che l’orario di alcuni dei seminari da me presi in considerazione coincidesse, in modo che fui costretta ad una selezione. Altrimenti sarei certo arrivata a 40 o 50 ore settimanali. Ma anche così ce n’erano abbastanza: l’indogermanico, il protogermanico e la grammatica tedesca moderna, la storia del dramma tedesco, la storia della Prussia nell’età di Federico il Grande e la storia costituzionale inglese, un corso di greco per principianti (ero sempre stata insoddisfatta che non ci fossero licei classici femminili ed ora volevo recuperare in parte le cose perdute; inoltre le disposizioni per gli esami di storia richiedevano qualche nozione di greco) A ciò si aggiunge la cosa che aspettavo con maggiore impazienza: quattro ore di introduzione alla psicologia co William Stern e un seminario di un’ora sulla filosofia della natura con Richard Hönigswald. Entrambi mi ammisero già nel primo semestre alle loro lezioni. Dovette essere di auspicio, perché nei quattro semestri durante i quali studiai a Breslavia, mi occupai soprattutto di psicologia”.
Le premesse, come si può ben dedurre, sono ottime. Edith è come sempre una appassionata ricercatrice della sapienza, della verità. Per lei lo studio non è un mezzo per acquisire le indispensabili competenze per poter svolgere una professione e dunque sistemarsi nella vita; lo studio è piuttosto la possibilità per lasciar emergere dentro di sé le domande esistenziali più profonde e per cercare, anche tramite l’utilizzo dell’intelletto, le risposte più autentiche. Veramente Edith, passo dopo passo, sceglie di scavare profondo, di non accontentarsi né della superficie, né delle apparenze, né del cibo che già altri hanno ruminato. Questa sua ricerca appassionata e personale è esattamente ciò che le permette di formare dentro di sé il castello della coscienza, come fin dalle prime conversazioni abbiamo avuto modo di sottolineare. Scrive infatti:
“La «libertà accademica» in cui mi venni a trovare era una lama a doppio taglio. Per noi non c’era allora un corso di studi preordinato, come accadeva ad esempio per gli studenti di medicina, i quali avevano un piano stabilito per ogni semestre. L’unico vincolo per noi era costituito dalle disposizioni statali riguardo all’esame per l’insegnamento superiore. Di qui potevamo vedere che cosa ci sarebbe stato richiesto alla fine. Io comprai l’elenco di queste disposizioni già durante il primo semestre, su sollecitazione di una compagna di studi che fin dall’inizio mirava risolutamente all’esame di Stato. La cosa in sé non mi interessava molto. Volevo sostenere l’esame di Stato «solo per la mia famiglia», per il momento mi attirava solo la scienza. Tuttavia, mi rendevo conto che sarebbe stato ragionevole tener conto delle cose che mi sarebbero state utili fin dal momento della formulazione del piano semestrale. Naturalmente non per questo avrei tagliato corto su quelle che mi stavano a cuore”.
La domanda più urgente che Edith porta dentro di sé è quella antropologica: si domanda non chi è l’uomo in astratto, ma la persona concreta che lei per prima è e che ogni essere umano che le è dato di incontrare è. Per questo sceglie di frequentare i corsi di psicologia di Stern e il seminario di filosofia di Hönigswald. Vi partecipa però in maniera adulta, quindi con spirito critico. Sempre nella sua autobiografia infatti scrive:
“ Le lezioni di Stern avevano un carattere molto semplice e facilmente comprensibile; le consideravo come liete ore di intrattenimento e ne ero un poco delusa. Tanto più che ci si doveva sforzare con Hönigswald. Il suo acume penetrante e i suoi incalzanti ragionamenti mi entusiasmavano. Era un risoluto sostenitore del criticismo ed è ancora oggi tra quei pochi che sono rimasti fedeli a questa tendenza; per essere in grado di seguirlo bisognava far proprio l’intero apparato concettuale della filosofia kantiana. C’era qualcosa di seducente per i giovani che frequentavano il suo seminario nel potersi esercitare in schermaglie dialettiche con armi tanto affilate. Chi interveniva con osservazioni che non fossero cresciute su questo terreno, veniva ridotto al silenzio dalla ponderata dialettica di Hönigswald e dalla sua mordace ironia, ma era difficile che ne venisse interiormente dominato. Un giorno, uno studente più anziano e molto indipendente, mi disse: «ci sono cose che uno non osa pensare al seminario di Hönigswald. Ma al di fuori di questo, non posso ignorarle». Ad ogni modo, era pur sempre un ottimo addestramento al pensiero logico, e questo allora bastava a rendermi felice”.
Paradossalmente, come vedremo più avanti, sarà la delusione per queste due discipline a portare poi Edith alla decisione di lasciare l’università di Breslavia per proseguire gli studi a Gottinga, con il Maestro Husserl.
Restiamo però nel presente di Edith. La possibilità di organizzarsi un piano di studi “su misura” la rende felice; se per altri è motivo di disorientamento, per lei decisamente no. Scrive:
“Io non soffrii in alcun modo della mia libertà. Mi trovavo bene con l’ordine del giorno completamente occupato e vi sguazzavo allegramente come un pesce nell’acqua limpida e al sole caldo”.
Affronta lo studio con la serietà di sempre, anche se tempo ed energie sono limitate. Come abbiamo detto poco fa, in Università Edith affronta anche un corso di greco per principianti. Certo, non è per lei materia centrale di insegnamento, quindi il livello è di necessità meno profondo rispetto ad altre materie di studio. Edith ne è consapevole, e pur tuttavia nell’autobiografia fa una annotazione interessante:
“ Noi due [Edith e la compagna di studi Kaethe Scholz, ndr] ci davamo molta pena per imprimerci nella memoria le numerose forme verbali, ma naturalmente eravamo studentesse e non potevamo togliere allo studio vero e proprio gran parte del nostro tempo a favore di uno studio scolaresco. Sicché, con mio grande dolore, non ottenni mai una sicura e precisa padronanza del greco così come accadeva per il latino”.
Abbiamo già avuto modo di dirlo, ma è utile ripeterlo, forse. Questa sottolineatura è molto importante perché indica il grado di maturità umana e il senso di responsabilità di Edith. Nessuno di noi è chiamato a essere onnisciente, ma ciascuno ha il dovere di essere assolutamente competente nel suo proprio ambito. Questo per due motivi: innanzitutto verso se stessi, perché solo la profonda conoscenza di ciò che ci compete ci garantisce serietà di ricerca e profondità di contenuto, poi come responsabilità verso gli altri, che hanno il diritto di trovare in noi persone competenti e non superficiali. La formazione della coscienza passa di necessità attraverso questa porta stretta. E’ illusione pensare giungere alla 6° stanza del Castello Interiore se si rimane nel pressapochismo, nell’incompetenza, nella faciloneria, nell’irresponsabilità umana.
Oltre alla psicologia e alla filosofia, una delle materie che più appassionano Edith è la storia. Il contesto storico è piuttosto vivace, come abbiamo avuto modo di esporre in una delle prime conversazioni. Soprattutto grazie al fratello Arno, Edith cresce assorbendo idee fortemente liberali. Naturalmente però, come ormai ogni cosa, anche l’orientamento politico viene passato al vaglio da Edith, perché deve maturare il lei una sua personale convinzione. Proprio qui in Università si fanno strada in lei le prime riflessioni. Ecco come ne parla:
“Il vecchio consigliere segreto Kaufmann, un uomo anziano dai bei capelli candidi e dagli occhi azzurri che brillavano di luce giovanile, e il professor Ziekursel, un uomo ancora piuttosto giovane, piccolo, ma diritto ed energico, erano politicamente nazional-liberali. Essi nutrivano un lieto orgoglio per il nuovo regno nel quale tutti eravamo stati educati, ma non si trattava di una cieca idolatria nei confronti della casa regnante o di una limitazione al punto di vista prussiano. L’esposizione, condotta con larghezza di vedute, delle connessioni della storia universale risvegliò in me un tale amore per la storia, che durante i primi semestri ero ancora indecisa se farne o meno il mio principale ambito di studio. Questo amore per la storia non significava per me una pura e semplice immersione romantica nel passato; ad esso era strettamente collegata un’appassionata partecipazione
agli avvenimenti politici presenti come divenire storico ed entrambe le cose scaturivano da un senso di responsabilità sociale insolitamente forte, da un sentimento di solidarietà con tutta l’umanità, ma anche con la comunità più prossima. Tanto mi ripugnava un nazionalismo di tipo darwiniano, quanto fermamente ero convinta dell’idea e della necessità naturale e storica di Stati singoli e di popoli e nazioni di indole diversa. Perciò, concezioni socialiste e altre aspirazioni internazionali non fecero mai presa su di me. Sempre di più mi liberavo anche delle idee liberali nelle quali ero cresciuta, per arrivare a una positiva concezione dello Stato, vicina a quella conservatrice, pur rimanendo sempre estranea all’impronta particolare del conservatorismo prussiano”.
Quello che qui ci preme sottolineare è la maturazione umana di Edith, in questo caso testimoniata con molta chiarezza da alcuni fatti:
Questo al di là del particolare orientamento politico che abbraccia. Questo senso di responsabilità politica la porterà poi, più adulta, a redigere uno scritto pubblicato in italiano col titolo “Una ricerca sullo Stato” ove, attraverso il metodo fenomenologico, collegandosi anche alle ricerche del maestro Husserl e dell’amico fenomenologo Reinach, indaga sulla essenza dello Stato, rintracciando le sue strutture profonde, anche in relazione all’etica e alla religione. Anche queste pagine sono fonte di luce per la lettura e la comprensione della realtà politico-sociale a lei contemporanea.
Insieme alla passione per la storia -dunque indirettamente per la politica- matura in Edith una forte sensibilità rispetto al tema della questione femminile. Certamente questa maturità la pone al di fuori della cerchia della maggior parte dei suoi compagni di studio; Edith ne è consapevole, ma, come sempre, resta fedele a se stessa. Sempre nella sua autobiografia scrive:
“Tutte le piccole agevolazioni che la tessera di studente ci assicurava - i biglietti a buon prezzo per teatri e concerti e così via - le consideravo come altrettante amorevoli premure che lo stato concedeva ai suoi figli prediletti, ed esse suscitarono in me il desiderio di rendere grazie con la mia futura professione al popolo e allo Stato. Ero indignata dell’indifferenza con la quale la maggior parte dei miei compagni di studio si ponevano nei confronti delle questioni di carattere generale: una parte di essi, durante i primi semestri, inseguiva soltanto il divertimento, altri si preoccupavano scrupolosamente soltanto di riuscire a mettere insieme le nozioni necessarie al superamento dell’esame, e assicurarsi poi il cibo. A partire da questo forte sentimento di responsabilità sociale, difesi anche decisamente la causa del diritto di voto alle donne; questa, a quell’epoca, non era assolutamente una cosa ovvia, all’interno del movimento femminista borghese. La Lega prussiana per il diritto di voto alle donne, alla quale aderii con le mie amiche, poiché essa perseguiva la completa equiparazione politica delle donne, era composta per la maggior parte da socialiste”.
Al riguardo possiamo fare due note a margine:
Edith partecipa alla vita universitaria in maniera molto vivace e attiva. Si circonda di amici e compagni a lei affini, con i quali vive un rapporto di autentico cameratismo. Con loro partecipa non solo alle lezioni, ma anche ad attività extra-scolastiche, sempre però a matrice filosofica, psicologica e pedagogica. Era membro del “Gruppo pedagogico” , formato principalmente da allievi del seminario di Stern, lo psicologo che abbiamo citato all’inizio di questa nostra conversazione. Scrive Edith:
“Stern, con i suoi modi gentili, mise a disposizione il locale del seminario di psicologia come aula di riunione. [...] Ci incontravamo una volta alla settimana, la sera, dalle otto alle dieci. Alle dieci l’edificio veniva chiuso. Se la discussione non era ancora finita, si andava in un caffè, e in estate talvolta anche allo Schetinger Park, a sentire gli usignoli cantare. Durante queste serate c’erano conferenze e dibattiti su argomenti pedagogici. Preferibilmente avevamo rettori o insegnanti delle diverse discipline scolastiche che venivano a parlarci delle loro esperienze. Spesso venivano anche docenti universitari; per quanto riguarda Stern, potevamo pregarlo di venire da noi una volta ogni semestre. Se non c’era nessun altro a parlare, qualcuno di noi riferiva su un libro o su un argomento che lo interessava”.
Edith e i suoi amici erano anche membri della “Lega per la riforma scolastica”, che abbinava a incontri di discussione, uscite sul campo, cioè visite a scuole ausiliarie, istituti per sordomuti e ciechi, collegi per l’infanzia abbandonata, asili per bambini svantaggiati o abbandonati, ecc. Fondatore di questo gruppo pedagogico è Hugo Hermsen, un tedesco della Germania del Nord, che aveva 27 anni quando Edith iniziò l’Università. Persona assolutamente carismatica, Edith arriva a dire di lui:
“Credo che dalla mia infanzia nessuno abbia esercitato su di me una influenza così forte”.
Con Lui Edith instaura una relazione importante, anche se si incontrano solo in occasione delle riunioni del gruppo e raramente parlano di argomenti personali. La relazione è però molto sincera. C’è un episodio narrato da Edith che vale la pena ricordare; scrive Edith:
“Poco prima che entrambi lasciassimo Breslavia - io per andare a Gottinga, lui per recarsi a Neuwied - fummo entrambi invitati, insieme con Rose Guttmann, a una serata d’addio da una insegnante che studiava all’università, con la quale egli aveva molto lavorato e a cui piaceva molto. Hermsen mi accompagnò a casa. Dopo gli incontri serali del gruppo, aveva sempre lasciato ad altri questo incarico, poiché abitava molto lontano da me. Giunti dinanzi a casa mia, disse: «Le auguro soltanto di poter incontrare a Gottinga persone che le andranno veramente a genio. Qui Lei è diventata un po’ troppo critica». Rimasi molto colpita da queste parole; non ero più abituata a essere rimproverata. In casa non accadeva quasi mai che qualcuno osasse dirmi qualcosa e le mie amiche erano legate a me da affetto e ammirazione. Così vivevo nella ingenua illusione che tutto andasse bene in me, come spesso accade a persone non credenti, dotate di un forte idealismo etico.
Dal momento che si è entusiasti del bene, si crede di essere buoni. Avevo sempre considerato mio pieno diritto puntare il dito senza riguardo su tutte le cose negative di cui mi accorgevo: debolezze, errori, mancanze delle altre persone, spesso in tono di scherno e di ironia. C’era gente che mi trovava «squisitamente cattiva». Sicché quelle parole di congedo pronunciate seriamente da un uomo che stimavo e amavo molto dovevano farmi una impressione dolorosa. Non rimasi per questo risentita nei suoi confronti e neppure cercai di discolparmi facendo apparire ingiusto il suo rimprovero. Quelle parole furono un primo segnale di sveglia che mi fece riflettere”.
Come possiamo ben notare, lo scollamento tra l’Io ideale e l’Io reale è di ogni uomo, dal più semplice al più erudito. Illudersi di vivere i valori in cui diciamo di credere è rischio cui tutti incappiamo. A fare la differenza è però la reazione che abbiamo quando gli altri ci fanno notare che non viviamo i valori che proclamiamo.
Edith era molto interessata agli argomenti pedagogici. In università c’erano studenti non attivi come lei. Ebbene, non si affianca a loro per tentare di coinvolgerli, di stimolarli; al contrario, li evita. Scrive infatti:
“Anche se la maggioranza degli studenti vegetava in modo alquanto apatico (io li definivo «idioti» e in aula non avevo neppure uno sguardo per loro), tuttavia non ero sola con i miei ideali e presto mi trovai compagni di idee”.
Indubbiamente dal punto di vista teorico Edith fa la scelta giusta, optando per una partecipazione attiva e responsabile alla vita universitaria; a non essere coerente con il mondo dei valori -ad esempio con gli ideali pedagogici - è la scelta di snobbare completamente chi si mostra più immaturo. Paradossalmente infatti è proprio a questo genere di persone che va indirizzata con maggior attenzione l’opera pedagogica!
Riallacciandoci al brano finale dell’autobiografia letto nella scorsa conversazione, quello in cui Hugo Hermsen faceva notare a Edith che il suo atteggiamento critico era eccessivo, l’incoerenza valoriale sta proprio nell’essere tanto protesa al sapere - filosofico, ma soprattutto psicologico e pedagogico -, ma avendo come unica prospettiva soltanto la propria. Una delle regole fondamentali per la psicologia è infatti quella di vedere ogni cosa da più punti di vista, tenendo conto non solo del dato oggettivo, ma di come il fatto, la situazione, la circostanza è vissuta dall’altra persona; questo non necessariamente per condividere la prospettiva altrui, ma indubbiamente per comprenderla. Nel giudicare in modo tagliente, Edith dimostra di non aver ancora maturato in sé il tratto empatico con apertura a 360° che la caratterizzerà invece nel tempo della maturità. D’altro canto dobbiamo sottolineare come in Edith non siano scattate delle difese a protezione del suo Io; al contrario, dice che le parole rivoltele furono per lei una sveglia che la portarono a riflettere.
Abbiamo appena detto: “apertura empatica a 360°”. E’ importante questo dire a 360°, perché, poche pagine oltre, Edith scrive:
“La piccola studentessa era arricchita e stimolata dal frequentare persone tanto più grandi, mature e progredite nella scienza, tuttavia ciò costituiva anche un pericolo. Quando i miei compagni mi parlavano delle loro tesi di laurea o dell’esame di Stato, allora una facilità di comprensione e un’inconsueta capacità di immedesimazione nelle altre persone mi permettevano lì per lì di seguirli e forse addirittura di esprimere anche qualche osservazione critica e stimolante. Questo faceva credere che io fossi alla pari con loro, e ingannava anche me stessa. Frequentai i seminari e le lezioni per i più progrediti, saltando alcuni fondamenti che mi sarebbero stati utili”.
Veramente dunque Edith dimostra una maturità umana superiore a quella delle giovani della sua età, un bisogno di conoscere assolutamente particolare, una serietà di ricerca indiscutibile e anche un abbozzo di capacità relazionale basata sull’empatia. Dall’altra parte però alcuni passaggi devono ancora maturare in lei e la frequentazione di persone costantemente più adulte di lei non le è stata del tutto di aiuto. Come ciascuno di noi, anche Edith deve percorrere le sue tappe e maturare gli aspetti che di ogni età sono tipici. Nessuna crescita armonica infatti concede sconti o salto di passaggio.
La vita universitaria non è ovviamente fatta solo di studio, ma anche di relazioni con amici e compagni. Edith non fa eccezione. Dice infatti:
“ Il gruppo pedagogico non era l’unica associazione accademica alla quale appartenevo. Durante i primi semestri, il nostro terzetto era iscritto alla associazione delle studentesse. Quelle riunioni serali settimanali erano improntate alla socievolezza. Avevamo un piccolo appartamento nei pressi dell’università che anche noi potevamo utilizzare durante il giorno. Quando la sera ci incontravamo, subito dopo l’inizio della riunione, arrivava un garzone della pasticceria vicina a prendere le ordinazioni e poi ci portava le cose richieste. Sedevamo in piccoli gruppi davanti al caffè, alla cioccolata, o al tè con la torta e chiacchieravamo liberamente, scambiandoci consigli sugli studi, o parlando tutti insieme di qualche importante argomento di interesse generale”.
Tramite una filologa classica, membro di questa associazione studentesca, Edith viene introdotta anche nella “Associazione accademica affiliata della società Humboldt per l’istruzione popolare”. Qui per due semestri Edith tiene un corso di ortografia a persone adulte che avevano necessità di rinfrescare le proprie cognizioni scolastiche per scopi pratici quali passaggi di livello in ambito lavorativo. Tenne anche un corso di inglese per principianti. Quest’ultimo fatto ci dà occasione per parlare della pulizia morale di Edith. Il corso di inglese era tenuto anche da altri due docenti, che non erano propriamente persone ineccepibili, perché si servivano dei corsi per stringere relazioni con le partecipanti femminili. Con arguzia Edith propone di dividere la scolaresca in maschi e femmine (cosa peraltro assolutamente normale nei licei dell’epoca) e di occuparsi lei delle donne. Per far passare la decisione ovviamente deve lottare, ma, sostenuta dalle studenti donne, alla fine riesce nel suo intento. Anche più oltre, a proposito dell’amico Eduard Metis, scrive:
“Una volta, nella recensione ad un volume di novelle, trovai argomenti erotici trattati in modo frivolo. Ciò mi irritò molto. Avevo instaurato questa amicizia nella salda convinzione di avere a che fare con una persona del tutto candida. Mi ero forse ingannata? In questo caso la nostra amicizia sarebbe stata da ritenersi finita. Non volevo aver a che fare con gente che non fosse assolutamente perbene riguardo a questo punto”.
Tra l’altro l’amicizia con Metis ci offre l’opportunità per riprendere un argomento già affrontato in passato: la dimensione religiosa di Edith e della sua famiglia, ebrea ma certo di vedute molto larghe.
Scrive Edith:
“Metis aveva qualcosa di diverso da tutti i miei compagni: era un ebreo strettamente osservante e rispettoso della legge. Non ne parlavamo molto; io lo lasciavo fare, ed egli non si dava la briga di esercitare una qualche influenza su di me. Quando veniva a studiare a casa nostra prendeva soltanto un po’ di frutta. Una volta che gli offrii dei biscotti mi disse ridendo: «Ciò che non so definire, io lo considero proibito». Un giorno camminavamo insieme per la strada e io dovetti entrare in una casa per sbrigare una commissione. Davanti alla porta gli consegnai in fretta la mia cartella ed entrai. Troppo tardi mi venne in mente che era sabato e che per il sabbath non era permesso portare nulla. Lo trovai poi ad aspettarmi pazientemente sotto l’arco del portone. Gli feci le mie scuse per averlo costretto, nella mia distrazione, a fare una cosa proibita. «Non ho fatto nulla di proibito», replicò tranquillamente, «solo per la strada non si può portare nulla, ma in casa ciò è permesso». Perciò era rimasto all’ingresso, evitando accuratamente di mettere piede sulla via. Questa era una di quelle cavillosità talmudiche che mi ripugnavano. Tuttavia non dissi nulla”.
Certamente questa è una modalità di vivere la religione che, per sensibilità, è lontanissima non solo dalla Edith atea dell’università, ma anche della Edith in ricerca di fede e poi nella Edith cattolica. Lei stessa infatti poi continua scrivendo:
“Quando a Gottinga cominciai a occuparmi di questioni religiose, gli chiesi per lettera quale fosse la sua idea di Dio e se credesse in un Dio personale. Rispose brevemente: Dio è spirito, di più non si poteva dire. Fu per me come ricevere sassi al posto di pane”.
Come si può vedere, Edith rispetta certamente il cammino altrui, ma per se stessa chiede realtà che vadano ben oltre la forma, chiede una sostanza che rimanda inequivocabilmente a una essenza. Ma questo è argomento specifico di una fondamentale opera della maturità di Edith: “Essere finito, essere eterno”.
La vita quotidiana di Edith durante gli anni di università a Breslavia era decisamente piena di attività: le lezioni, lo studio - mai da sola, ma sempre con dei compagni -, gli incontri serali, le lezioni private o presso l’Associazione accademica... Tutto però ruotava appunto attorno alla sua vita di studente. E’ lei stessa ad annotarlo. Scrive infatti:
“Se i numerosi impegni della vita studentesca e le amicizie non guastavano lo studio, qualcosa tuttavia doveva soffrirne: avevo a malapena il tempo di dedicarmi alla vita familiare. La mia famiglia mi vedeva quasi esclusivamente all’ora dei pasti - non sempre, comunque. Quando mi sedevo a tavola i miei pensieri erano tutti diretti allo studio, sicché parlavo poco. Mia madre diceva sempre che avrebbe potuto mettere qualsiasi cosa nel mio piatto senza che io me ne accorgessi. [...] Per me era più difficile che per Erna raccontare qualcosa sui miei studi. Nelle cliniche accadeva sempre qualcosa che suscitava comprensione ed interesse negli altri. Ma i miei problemi filosofici non erano materia per il desco familiare. [...] Continuavo a prendere parte a feste di compleanno e altre feste di famiglia e dovevo anche occuparmi dell’intrattenimento con le dovute poesie d’occasione. Ma. di solito, quasi non mi accorgevo di quanto mi fossi allontanata dai miei e di quanto loro ne soffrissero. Vivevo quasi completamente assorta nei miei studi e nelle aspirazioni alle quali essi mi avevano condotto. In questo ambito vedevo i miei doveri e non ero consapevole dei torti che facevo”.
Questi anni di università in effetti sono fondamentali per Edith non solo dal punto di vista intellettuale , intendendo l’acquisizione di nozioni e competenze in vista di una attività lavorativa, ma proprio come solida strutturazione della sua personalità. Si percepisce che Edith si sta ponendo sempre più come adulta autonoma e responsabile nel modo. Questo processo maturativo assorbe tutte le sue energie ed è caratteristico di chi, come Edith, sceglie di formarsi una personalità indipendente. D’altro canto non è meno vero che proprio il tipo di studi che sta compiendo è elitario, offre pochi spunti per conversazioni con i “non addetti ai lavori”. E’ però anche vero che serpeggia in lei un atteggiamento di cui si vergognerà, una volta giunta all’età adulta. Lo racconta ella stessa:
“Anche in questo ero diversa da Erna perché non portavo come lei i miei amici in famiglia. In genere non li invitavo a casa se non vi ero indotta da un lavoro in comune. Quando qualcuno veniva da me per questo scopo, pensavo che non potevo pretendere che facesse conoscenza con una famiglia di quattro persone e che perdesse il proprio tempo ad intrattenersi con loro. Solo se incontravamo qualche membro della famiglia per le scale o in anticamera, facevo le presentazioni. Devo riconoscere con grande vergogna che questi incontri erano spiacevoli per me. Sì, ero tanto stupida da vergognarmi dell’abbigliamento e delle mani indurite dal lavoro della mia cara mamma, quando ritornava a casa dal deposito del legname. Tuttavia le mie amiche che venivano da me si sono sempre preoccupate da sole di fare la conoscenza dei miei familiari e tra loro non c’è stata nessuna che non abbia presto riconosciuto le qualità straordinarie di mia madre e non abbia guardato a lei con affetto e ammirazione”.
Aveva avvisato, Edith, parlando dei limiti dei propri fratelli e sorelle, che nei suoi riguardi sarebbe stata altrettanto veritiera. Qui ne abbiamo un esempio. E’ importante, perché uno dei segni della maturità autentica è l’integrazione del proprio limite, dei propri difetti e, in un contesto di fede, anche dei propri peccati.
Il capitolo 5 termina poi con un passaggio molto importante, che in passato abbiamo già avuto modo di accennare.
Edith si butta a capofitto nella vita universitaria di Breslavia, ma non in maniera pedissequa o adesiva. Sempre critica, segue un proprio filo di ricerca, animata come è dalla ricerca di senso. A un certo punto del percorso intuisce che Breslavia si è fatta troppo stretta per lei, che l’università così fatta non è più in grado di soddisfare il suo bisogno interiore. Durante le vacanze estive legge le “Ricerche logiche” di Husserl, il filosofo di Gottinga, fondatore della fenomenologia. E’ lo spalancarsi di un orizzonte nuovo. Questo in contemporanea a una crescente insoddisfazione verso gli insegnamenti dello psicologo Stern. L’incontro con Otto Lipmann, collaboratore di Stern, è decisivo. Motivo della conoscenza è l’ipotesi di un lavoro di tesi sullo sviluppo del pensiero infantile. Così Edith racconta:
“Portai con me il ricordo di un piacevole pomeriggio e la convinzione che del lavoro non ne avrei fatto più nulla. Era sbagliato fin dal principio pensare a un lavoro di psicologia. I miei studi in questa materia avevano prodotto in me l’opinione che questa scienza si trovasse ancora agli inizi, che le mancasse la base necessaria di chiari concetti fondamentali e che essa non fosse in grado di elaborarli. Al contrario, ciò che sapevo riguardo alla fenomenologia mi entusiasmava tanto, proprio perché essa consisteva in questo lavoro di chiarificazione; perché in questo campo si elaboravano fin dall’inizio gli strumenti intellettuali di cui si aveva bisogno”.