Il capitolo 3 è intitolato “Preoccupazioni e discordie familiari”. La prima cosa che notiamo è che il capitolo inizia... con un discorso già avviato! Una nota ci avvisa: “Qui mancano 28 pagine del manoscritto” e a fondo pagina: “mancano 28 fogli (nel manoscritto pp. 162-190). L’ultima pagina del precedente gruppo di fogli (p.161) lascia chiaramente intendere che nella sua seconda metà comincia un nuovo paragrafo. Questa parte di p. 161 è stata tagliata e tolta dal manoscritto”.
Dalla cronaca sappiamo che l’autobiografia, su esplicita volontà di Edith, è stata pubblicata dopo la morte di tutti i suoi fratelli e sorelle. Tuttavia i nipoti e le nipoti hanno avuto tra le mani il manoscritto antecedentemente la pubblicazione. La nipote Susanne, nella sua biografia, cita di una sua cugina che ha commentato in maniera piuttosto negativa quei passi scritti dalla zia in cui venivano narrate vicende familiari in cui i fratelli e le sorelle di Edith comparivano con tutta la loro carica di umanità, fatta di pregi, ma anche di difetti. Sebbene fossero morti, questa nipote reputava tali parole una mancanza di rispetto. Susel invece sembra essere più vicina alla scelta della zia Edith. A questo punto della biografia mancano 28 pagine: non è azzardato supporre che in esse vi fosse scritto qualcosa sulla famiglia Stein ritenuto da qualcuno o un po’ imbarazzante, o poco edificante, o comunque sconveniente e inadatto a una pubblicazione. Che dire? Possiamo solo prendere atto di questa divergenza di veduta. In relazione a Edith però una piccola nota a margine la possiamo fare. Come ormai dovremmo aver compreso, per Edith una delle parole chiave è “verità”, un’altra è “realtà”. Su queste due non sembra disposta a transigere. Che cosa significa questo? Significa che Edith ha educato se stessa a restare non in un mondo ideale, fantastico, magari costruito su misura, fatto di fantasie e di pensieri astratti. Ella, donna di profondissimo pensiero e di acuta riflessione, ha radicato le sue speculazioni nel puro dato della concretezza. D’altro canto è esattamente questo il metodo fenomenologico: non l’astrazione e i massimi sistemi, ma l’indagine del reale così come esso ci viene incontro nel quotidiano vivere, andando però a ricercare dentro di esso il suo più autentico significato. Questa educazione rigorosa della propria coscienza l’ha portata a non sottrarsi ad alcun avvenimento o relazione, ma a stare dentro le circostanze così come esse le si presentavano. Il dato del reale mai manipolato, ridotto o interpretato, ma compreso. Ne ha così ricavato quella somma libertà interiore che le ha permesso di non censurare alcun dato della sua storia personale e familiare, di accogliere ogni cosa come fatto e di farne occasione di riflessione e di crescita, non solo personale, ma anche nella prospettiva delle relazioni, come vedremo tra poco.
Evidentemente chi ha scelto di eliminare queste 28 pagine ha fatto un percorso di ricerca e di vita differente, è giunto a conclusioni diverse, oppure si rifaceva a un quadro valoriale non coincidente con quello di Edith.
Noi, dal canto nostro, prendiamo semplicemente atto della cosa.
Il capitolo presenta poi il racconto di vita di due zii, uno da parte di papà l’altro da parte di mamma, conclusisi entrambi con il suicidio, motivato, come ragione scatenante, dal fallimento economico.
Un tema, questo, stando ai dati della cronaca, di tragica attualità.
E’ un argomento questo assai delicato; se, come abbiamo già detto, giudicare è assolutamente anti-evangelico, in circostanze come queste lo è in grado sommo. Solo la persona e Dio, infatti conoscono il dramma che si consuma nel cuore e nella coscienza di chi giunge a consumare un atto così estremo.
Scrivendo di questi zii, Edith ovviamente non giudica, ma riflette come tra sé, per ricavare qualcosa di utile alla sua vita. Fa riferimento al suo contesto familiare e, in maniera più allargata, alla sua appartenenza al popolo ebraico, inteso però più come razza che come appartenenza religiosa. Già in altra occasione abbiamo avuto modo di riflettere su questo ebraismo laico, assai diffuso nella Germania di quel tempo.
Così Edith scrive:
“In seguito, riflettendo su come fosse possibile una cosa simile e chiedendomi anche come mai proprio tra gli ebrei il suicidio avviene relativamente di frequente, trovai anche un’altra spiegazione. Anche la guerra economica contro gli ebrei, che l’anno scorso ha rovinato tanti in un colpo solo, ha causato uno spaventoso numero di suicidi. Credo che l’incapacità di guardare tranquillamente in faccia la rovina della propria vita esteriore e farsene carico sia la conseguenza di un difetto di prospettiva rispetto alla vita eterna. L’immortalità personale dell’anima non è un dogma. Qualsiasi aspirazione è di tipo terreno. La stessa religiosità dei devoti è tesa alla santificazione di questa vita. L’ebreo può lavorare duramente, essere infaticabile e tenace e sopportare le privazioni più grandi finché vede uno scopo dinanzi a sé. Se esso gli viene tolto, la sua energia viene meno; la vita gli appare priva di senso e così arriva facilmente a gettarla via. Invece, colui che crede veramente è tenuto lontano dal farlo dalla sottomissione al volere divino”.
La riflessione di Edith punta dritto al nocciolo di una questione di fondamentale importanza per il senso della vita di ciascuno: entro quali orizzonti colloco il mio vivere sulla terra? Entro un orizzonte di santificazione terrena o nella prospettiva della eternità, della vita che inizia sulla terra, ma per non finire più, per eternamente proseguire nell’aldilà? Ovviamente se il senso dell’esistenza è racchiuso entro il numero di giorni che ci sono dati da vivere sulla terra, allora il fallimento di una componente portante dell’orizzonte terreno pone in crisi l’intero sistema. Se invece le coordinate sono sia orizzontali sia verticali, il venir meno di uno degli assi orizzontali fa vacillare il sistema, ma la verticalità gli permette di non implodere. Le parole di Edith oltretutto nascono da una sua sofferta esperienza personale. Lei stessa, nel 1933, aveva visto chiudersi completamente il suo orizzonte di realizzazione personale. Le leggi ariane infatti le avevano precluso ogni possibilità di insegnamento e di ricerca scientifica, come ogni attività di conferenziera. Tra le mani le era rimasto il nulla. Il suo essere ancorata alla dimensione verticale del vivere le aveva però permesso di non cedere sotto il fallimento, ma di permettere a questo evento storico di raggiungerla. Dalla realtà si era lasciata interrogare e nella realtà, con dinamica tipicamente fenomenologica, aveva colto un significato più grande. Mi sto riferendo a quella esperienza di preghiera nella quale era arrivata a riconoscere che la persecuzione messa in atto dai nazisti contro gli ebrei era in realtà una persecuzione fatta a Gesù, nella sua umanità di uomo ebreo. Era il sangue ebraico di Gesù che veniva di nuovo sparso sulla terra... Dunque chi aveva colto questa connessione mistica, aveva il dovere di farsene carico, a nome di tutti. Su questo Edith ha fatto leva per andare avanti, per continuare a vivere in un contesto storico ostile, riempiendo i suoi giorni di incrollabile significato.
Il terzo capitolo prosegue poi con la questione della sorella Else, quella che Edith aveva chiamato “la mia bella sorella”, la maggiore dei figli di Auguste Stein, di 15 anni più grande di Edith. Gli studi della sorella Else sono nel campo della educazione dei bambini. Sposa il dermatologo Max Gordon e si trasferisce a vivere da lui ad Amburgo. Anche Max è di stirpe ebraica, ma entrambi sono atei. Al riguardo così Edith scrive:
“ Per noi fu una delusione che le nozze venissero celebrate ad Amburgo e che non potessimo parteciparvi. Il nuovo cognato non si muoveva mai, tranne qualche volta per trascorrere un paio di giornio festivi con sua madre a Berlino. Non voleva lasciare il suo ambulatorio e neppure prendere un sostituto, perchè con i suoi colleghi era sul piede di guerra. Mia madre perciò fu costretta ad accettare qualcosa che non rientrava assolutamwente nei suoi propositi. La cosa più dolorosa fu che la coppia di sposi non ne volle assolutamente sapere della cerimonia religiosa: entrambi erano completamente atei. Fu un grande sacrificio per mia madre partecipare, malgrado questo, al matrimonio”.
E anche qui rileviamo la mancanza di altri 4 fogli, che qualche censore ha indebitamente ritenuto sconveniente consegnare alla storia.
A proposito di Max Gordon, Edith racconta un particolare molto interessante circa la modalità e la sensibilità con cui svolgeva la sua professione medica. Scrive:
“Da giovane dottore, si era costruito una vita al Amburgo pubblicando regolarmente inserzioni sui giornali che annunciavano al pubblico l‘esistenza del suo ambulatorio. Vista la sua specializzazione (malattie veneree e della pelle) e l‘afflusso continuo di stranieri in quella città di porto, ciò aveva dato ottimi risultati. La federazione dei medici vedeva in questo procedimento commerciale una <<concorrenza sleale>> e un‘offesa all‘onorabilità professionale. Mio cognato non riusciva a capire il motivo per cui un abile e coscienzioso dottore non dovesse far sapere in modo semplice e pratico alle persone sofferenti dove potevano trovare aiuto. Nella foga con cui i colleghi si richiamavano alla dignità professionale vedeva soltanto una mascherata invidia della concorrenza. Si lasciò perciò tranquillamente escludere dalla federazione dei medici, e parimenti accettò l‘isolamento sociale che da ciò derivava; durante ripetute discussioni si è difeso con grande acume e con la sincera indignazione di una coscienza pulita. Chiunque parlasse di questo argomento toccava ovviamente un punto dolente. Per il resto Max era una persona amabile e perdeva difficilmente la calma. Ma su questo punto poteva diventare molto brusco, dal momento che generalmente non tollerava opposizioni alle sue idee. I cambiamenti verificatesi nella professione medica negli ultimi anni, gli hanno causato nuove difficoltà”.
Qui Edith si riferisce alle leggi razziali emanate nel 1933 che chiudevano le porte lavorative agli ebrei in Germania. Da questa descrizione Max Gordon emerge dunque come una persona di saldi principi e alti valori, capace di difendere le proprie scelte di servizio anche pagando di tasca propria, nonché come una persona fondamentalmente equilibrata. Questa stabilità non caratterizzava però la moglie Else. Poche righe più sotto Edith scrive:
“Naturalmente anche sua moglie Else fece le spese di queste difficoltà. Ella amava e venerava il marito e in sua assenza difendeva le sue opinioni nel suo modo passionale: per la vita e per la morte. Ciò non le impediva però di contraddirlo in ogni occasione, sicché, malgrado il reciproco affetto, non vi fu più pace in casa”.
Già altrove Edith aveva detto di Else che quando era ad Amburgo sentiva una incontenibile nostalgia per Breslavia e per la sua famiglia di origine, cosicché spesso partiva per raggiungerli. Dopo poco tempo di permanenza in casa Stein però iniziava a sentirsi alle strette, la relazione conflittuale con la mamma la esasperava, sentiva nostalgia di Amburgo e perciò ripartiva. In conclusione, Else sembrava essere una persona mai in pace in qualunque luogo si trovasse e con qualsiasi persona si relazionasse.
Quella dei Gordon è una famiglia che Edith ha avuto modo di frequentare con abbondanza durante la sua adolescenza. Quando infatti decide di sospendere gli studi è ad Amburgo che si trasferisce, in aiuto della sorella puerpera. Qui vi soggiorna dieci mesi, traendone peraltro grande beneficio a livello fisico. Anche per Else la presenza di Edith è assai salutare. Scrive Edith:
“Penso che il periodo nel quale rimasi con lei fu il più bello della sua vita matrimoniale. Ora aveva la compagnia che aveva sempre desiderato. Ci occupavamo di tutto quanto insieme, dividevamo le gioie e le preoccupazioni per i bambini. Quando la sera i piccoli dormivano e c‘era ancora tempo prima del ritorno a casa di mio cognato, spesso leggevamo qualcosa insieme. E quando veniva una ragazza di fiducia (un caso raro), talvolta andavamo a teatro o a qualche concerto. Malgrado fossi ancora tanto giovane, Else parlava di tutto con me. Per lo più ascoltavo tranquillamente ed era difficile che replicassi. E quando mi sentivo in dovere di esprimere un‘opinione divergente dalla sua, lo facevo con tale calma da impedire discussioni animate. Dal momento che mia sorella era contenta, anche la vita di mio cognato era più facile. Gli volevo molto bene ed ero sempre contenta a mezzogiorno e alla sera quando tornava a casa dall’ambulatorio”.
Edith, durante il suo soggiorno ad Amburgo, si prodigò molto come baby-sitter dei nipoti, permettendo a Max e a Else di potersi godere qualche serata libera, loro due soli. In realtà inizialmente Max qualche perplessità su Edith come baby-sitter la nutriva: è la stessa Edith a raccontarlo:
“Da principio mio cognato domandò a mia sorella (non in mia presenza, ma lei me lo raccontò in seguito) come fosse possibile affidare un bambino ad una ragazza tanto trasognata. Lei allora replicava con forza: «Questa ragazza è mia sorella». Effettivamente si poteva fare affidamento su di me”.
In effetti poi Max ebbe modo di ricredersi e instaurò con Edith un rapporto molto bello e molto profondo.
Dopo dieci mesi Edith tornò a casa, richiamata per la grave malattia di Harald, secondo figlio del fratello maggiore Paul.
Pochi anni dopo si verificò una circostanza in cui l‘intervento equilibrato di Edith si dimostrò fondamentale per i coniugi Gordon.
Così racconta Edith:
“ I tre bambini, arrivati a così breve intervallo l‘uno dall‘altro e allattati per tanto tempo, consumavano le forze della madre [cioè di Else]. Pur non essendo arrivata al grado di governare la casa, voleva farlo assolutamente senza domestiche. Così era sempre troppo stanca e divenne sempre più nervosa. Dall‘altra parte, mio cognato soffriva delle difficoltà in cui era incappato nella sua vita professionale e a casa non trovava alcuna distensione. Così un giorno ricevemmo un espresso da Amburgo, ma questa volta ne fummo amareggiati. Mio cognato comunicava brevemente a mia madre che aveva lasciato il suo appartamento e la pregava di prendere sua figlia con sé; prima non sarebbe tornato a casa”.
Per Auguste fu un colpo non indifferente; non sentendosi in grado di affrontare la situazione, chiese a Edith di partire lei per Amburgo. E così fu. Ecco come narra Edith quella dura circostanza:
“Telefonammo a mio cognato per avvertirlo del mio arrivo ed io mi accordai con lui per un incontro in città. Nei miei confronti fu gentile e amichevole, ma non riusciva a nascondere l‘agitazione che lo dominava, e io dovetti stare ad ascoltare tutte le amarezze che aveva accumulato nel corso degli anni: non si lamentava solo di mia sorella, ma rimproverava anche mia madre per avergli scritto dopo il fidanzamento che avrebbe trovato in Else una moglie ubbidiente. La nostra buona mamma! La gioia che aveva nel cuore le aveva fatto considerare come un dato di fatto ciò che lei stessa sperava e si augurava, e aveva fatto sì che promettesse una cosa sulla quale non aveva alcun potere. Max chiese risolutamente che io portassi con me Else a Breslavia. Avremmo dovuto farla curare da un ginecologo o da un neurologo per fare in modo che si rimettesse in salute. Se poi avesse promesso di comportarsi in modo del tutto diverso da come si era comportata fino ad allora, avrebbe potuto tornare a casa. Vidi bene che non c‘era niente da fare e che dovevo adoperarmi in ogni modo per convincere Else a partire con me. Anche questa non fu cosa facile. Ella non voleva assolutamente rinunciare ai diritti e ai doveri di casalinga, di moglie e di madre. Ma soprattutto la separazione da suo marito le era insopportabile (...) Era in uno stato di eccitazione tale che effettivamente oltrepassava di molto i limiti della normalità (...) persino di notte non c‘era pace (...) Dopo molti sforzi si dichiarò pronta a partire, purché Max fosse tornato nell‘appartamento prima della partenza (...) Io dovetti presentare a Max le condizioni ed egli vi aderì. (...) Partimmo il mattino dopo. Mio cognato ci accompagnò alla stazione. Prima della partenza mi tese ancora una volta la mano al finestrino e mi ringraziò per il mio aiuto”.
Edith colloca questo evento durante le vacanze di Pasqua del 1914. Edith è ventitreenne: tutto sommato giovane, ma capace di farsi carico di situazioni emotivamente pesanti. Sa lasciarsi coinvolgere ma non travolgere dagli avvenimenti, sa mantenere quella necessaria distanza che garantisce lucidità. Per questo motivo può essere di aiuto sia alla sorella Else sia al cognato Max. Nel suo racconto non ci sono sbavature: non giudica né l‘uno né l‘altro, rileva la fatica relazionale e offre il suo contributo concreto per cercare una soluzione che riporti un po‘ di armonia nella coppia. Di fatto la sua mediazione porta buoni frutti. Così scrive ancora Edith:
“ La situazione a Breslavia fu difficile per tutti. (...) Infine [Else] ebbe il permesso di ritornare a casa. Un secondo conflitto di questo genere non si è mai più verificato, sebbene Else non fosse di certo sostanzialmente cambiata. Era divenuta un poco timorosa e manteneva il controllo durante le discussioni. Con l‘avanzare dell‘età, entrambi divennero più tranquilli. A ciò si aggiunse che le figlie, crescendo, divennero un appoggio per la madre, la quale dava loro la più completa fiducia. Inoltre, la diminuzione dell‘attività ambulatoriale costrinse mio cognato ad una estrema sobrietà. Dovette perciò essere grato a sua moglie che aveva saputo amministrare la casa con quasi niente e, nei primi tempi, aveva messo da parte dei risparmi. La difficoltà economica che li opprimeva e la salute sempre precaria di mia sorella continuarono a costituire una costante preoccupazione per nostra madre, tuttavia ad Amburgo la crisi più brutta fu superata”.
Il capitolo prosegue poi narrando delle fatiche relazionali tra Martha, moglie di Arno, il fratello di Edith, e Auguste, la matriarca di casa Stein. In realtà questo non è argomento totalmente nuovo per noi. Già tempo fa, presentando proprio Auguste Courant, avevamo avuto modo di sottolineare come, accanto a notevoli doti e grande forza d’animo, questa donna ebrea sembrasse presentare una fatica a gestire in maniera adeguata le relazioni con nuore e generi. Fino a che questi erano amici dei figli, tutto sembrava sereno; quando però si legavano a essi con particolari vincoli matrimoniali, allora le relazioni iniziavano a farsi faticose. Sicuramente una delle motivazioni era che la convivenza più stretta rendeva evidenti alcune asperità caratteriali e differenze di veduta, ma probabilmente c’era anche da parte di questa madre la fatica a staccarsi dai propri figli.
In questo capitolo Edith sembra confermare queste supposizioni.
A proposito di Martha infatti Edith scrive:
“Soltanto nella convivenza stretta la notevole diversità delle loro nature cominciò a provocare molte difficoltà”.
Una diversità evidente era di sicuro la cura dei figli e i metodi educativi.
A proposito di Eva, ad esempio, la secondogenita di Arno e Martha, che fin dai primi anni di vita dimostrò avere ritardi intellettuali e di parola, Edith scrive:
“Che questa bambina, a causa dell‘irragionevolezza dei suoi genitori, non venisse trattata adeguatamente e anche che essi non istruissero gli altri al riguardo che le era dovuto, causò pene continue a mia madre. Mostrava un interessamento molto maggiore riguardo a Eva che per gli altri tre bambini sani”.
E più in là:
“I metodi educativi di mia cognata Martha consistevano principalmente nel provvedere ad una abbondante nutrizione dei bambini e nel sorvegliare che dormissero molto e che prendessero aria fresca”.
Ancora, Edith scrive:
“Quando i bambini si ammalavano, mia madre veniva a trovarli più volte al giorno. Ma durante ciascuna visita c‘era sempre qualcosa che le saltava agli occhi e la irritava. Ogni volta che lo faceva notare, c’erano notevoli contrasti. Per questa ragione evitava, per quanto possibile, di dare un’occhiata a come la nuora conduceva la casa”.
Come possiamo notare, la presenza della matriarca è notevole all‘interno del nuovo nucleo familiare, secondo una modalità che certo suona eccessiva per la nostra sensibilità moderna. Negli evidenti limiti della ragionevolezza, ogni nucleo familiare è chiamato infatti a compiere scelte educative e formative in autonomia; il discernimento sui figli è dei genitori... dall’esterno possono essere dati, se richiesti, suggerimenti e consigli, ma certamente in maniera delicata e rispettosa.
Oltretutto Auguste non sembra tenere conto di un fattore di fondamentale importanza: Martha, sebbene di origine tedesca, viveva da anni in America. Per sposare Arno era tornata in Germania, lasciando però negli States mamma e sorella. Lo stile di vita americano differiva notevolmente da quello tedesco. Tornata in Germania, Martha aveva trovato una sorta di compromesso, che sia a lei sia al marito Arno non creava problemi. Non era invece gradito alla mamma di lei, venuta in visita dagli States.
Scrive Edith:
“Mia cognata si era abituata a sbrigare da sola i lavori domestici, pur semplificandoli al massimo in modo da avere tempo per altre cose. Sua madre però non vedeva di buon occhio che ella si occupasse di faccende che in America erano i domestici o gli uomini a svolgere. Ciò provocò malumori tra suocera e genero, ma anche tra madre e figlia”.
Anche in questa circostanza si può evidenziare una ingerenza troppo pesante da parte dei genitori. Ancor più, possiamo notare come ci sia una errata scala valoriale: la modalità di gestione di alcuni aspetti dell’esistenza assume più importanza della persona, al punto che per una divergenza di opinioni sulle cose vengono compromesse le relazioni. C’è dunque un duplice problema: una scorretta posizione di ruolo dei genitori nel loro modo di porsi di fronte a figli ormai adulti, che fanno scelte autonome (infatti interferiscono oltre il dovuto) e una assolutizzazione del particolare, al punto che si incrinano i rapporti. Questa errata posizione prospettica è evidenziata dalla stessa Edith quando, sempre a proposito di Martha, scrive:
“Il modo di esercitare le attività commerciali, che aveva appreso in America, era tanto diverso dalle tradizioni di casa nostra che mia madre avrebbe subito preferito che se ne allontanasse di nuovo. Il suo aiuto, infine, si limitò al disbrigo delle commissioni per le quali veramente nessuno aveva mai tempo”.
Auguste non si interroga se il modo di esercitare il commercio di Martha è migliore, se può portare benefiche innovazioni, se i metodi possono essere integrati: è diverso, dunque non c’è spazio per esso... al punto tale che desidererebbe allontanare la stessa Martha.
Più equilibrata è invece la posizione di Edith.
Dai suoi scritti emerge con molta chiarezza che, dal punto di vista teorico, è molto vicina al modo di pensare della madre, ma sa fare il distinguo tra le cose e le persone, tra le scelte operate da Martha e Arno e la relazione con loro, valore supremo. A conferma, il fatto di essere scelta come portavoce per una incresciosa situazione.
Edith racconta che, fino al momento del matrimonio di Arno, la madre era stata l’unica proprietaria del negozio di legname. Arno e Freida erano impiegati con procura. Martha, che possedeva un piccolo capitale, lo volle assimilare all’attività di casa Stein come capitale di esercizio: non era un granché la cifra, ma venne ben accolta e finalizzata ai pagamenti immediati. Col tempo però Martha, fondandosi proprio sul capitale di esercizio, avanzò la pretesa di voler divenire comproprietaria del terreno e del deposito di legname. Avendo ella 4 figli, cercava probabilmente un modo per assicurare loro il futuro. La pretesa era in effetti azzardata. Ciò fu fonte di sofferenza non solo per Auguste, ma anche per tutti gli altri fratelli e sorelle, perché, per la sensibilità ebraica, era crudele pensare alla suddivisione dei beni essendo il proprietario ancora in vita. D’altro canto Arno sembrava aver perso, da questo punto di vista, la sua autonomia e pareva essere esageratamente influenzato dalla moglie. Se ne parlò prima in casa Stein, tra fratelli e sorelle, con anche Auguste, poi si chiese anche la presenza di Arno. Edith fu scelta come portavoce della proposta. La mediazione fu penosa e faticosa, ma alla fine si giunse alla decisione che Auguste rimaneva proprietaria del negozio (garantendo in questo modo anche gli altri suoi figli, in particolare Freida) e Arno vi entrava in qualità di socio con una quota di utile.
Una situazione delicata come questa testimonia quanto sia importante mantenere sempre ben chiara la scala valoriale: Edith, ponendo le persone e le relazioni al di sopra di tutto, ha saputo porsi al servizio di ciascuno, offrendo il suo contributo per la ricerca di una soluzione in divergenze riguardanti le cose.
Diversamente, se al di sopra di tutto ci fossero state le cose, il conflitto di interesse avrebbe certamente portato alla rottura delle relazioni.
Le ultime pagine del terzo capitolo sono dedicate alla sorella Rosa, il “leone” di casa Stein, come era stata soprannominata dal fratello, a motivo del suo carattere piuttosto irruento. Rosa è la sorella che, come Edith, passerà al cattolicesimo, si farà terziaria carmelitana e con Edith morirà ad Auschwitz.
Rosa aveva nelle sue mani il governo della casa. Al suo temperamento irruento per natura si aggiungeva una forte irritabilità causata dalla sua insoddisfazione. Se infatti da una parte era molto autonoma nella gestione delle faccende domestiche, dall’altra parte doveva ovviamente fare continuamente i conti con i desideri e i gusti dei suoi fratelli e delle sue sorelle, cosicché non riuscì mai a sentirsi autenticamente padrona della casa. Temeva inoltre che il suo lavoro non venisse apprezzato a sufficienza, cosicché si sentiva assai frustrata. Anelava a qualcosa di diverso, senza però riuscire a concretizzare qualcosa. Anche quando i suoi fratelli e le sue sorelle dissentivano dai suoi progetti lavorativi, Rosa sembrava non avere mai forza sufficiente per perseguire comunque i suoi obiettivi e finiva sempre per cedere le armi.
Per età, Rosa era molto vicina a Freida. Le due sorelle però non riuscirono mai a instaurare una relazione affiatata -come Edith ed Erna, per esempio-, perciò l‘insoddisfazione e una certa qual solitudine di Rosa la rendevano ancora più irascibile, al punto da compromettere in maniera pesante la quiete familiare, a logoramento di tutti.
E con questo termina il terzo capitolo della autobiografia di Edith.
Del capitolo successivo in realtà abbiamo in parte già parlato quando abbiamo presentato Erna, la sorella prediletta di Edith. Hanno infatti vissuto una infanzia e una giovinezza all’unisono, sebbene presentando ciascuna linee caratteriali assolutamente personali e compiendo ciascuna scelte autonome.
Durante la loro giovinezza le due sorelle Stein facevano quartetto d’amicizia con Lilli Platau e Rose Guttmann, pure loro ebree. Erano tutte e quattro menti brillanti, appassionate di studio, ma anche desiderose di non chiudersi ciascuna nello stretto ambito della propria specializzazione. I loro incontri erano perciò caratterizzati da vivaci scambi intellettuali, ove ciascuna rendeva partecipe le altre delle proprie acquisizioni scientifiche, intese non tanto come trasmissione di una tecnica, ma come modalità di approccio alla materia e, dunque, alla realtà. E’ noto infatti come ogni disciplina, se seriamente abbracciata, porti alla formazione di una specifica “forma mentis”. Questo è non solo inevitabile, ma anche indispensabile, se si vuole entrare autenticamente, con competenza, nella disciplina che si è scelta. D‘altro canto però ogni prospettiva è relativa e il chiudersi ai contributi prospettici provenienti dalle altre discipline porta non solo a impoverimento conoscitivo, ma anche a distorsione del reale, perché il relativo finisce per essere assunto come assoluto.
Il quartetto amicale di cui Edith era membro aveva trovato una valida soluzione per evitare l’implosione del sapere.
Pur non negandosi momenti di relax e di distensione tra le montagne slesiane, trascorrevano pomeriggi e serate discutendo di filosofia, di politica, della questione femminile, ecc.
Le loro relazioni erano veramente autentiche, come dimostra un episodio riportato da Edith nella sua autobiografia. L’episodio riguarda Rose Guttman, delle quattro la più fragile. Da un certo punto di vista infatti era una persona un po’ falsa.
Scrive Edith:
“Lei non era una persona che sostenesse risolutamente convinzioni profonde, ma si adattava agli altri mentre parlava con loro, ed era in grado di esprimere opinioni molto contrastanti in ambienti molto diversi tra loro. Anche delle sue dichiarazioni su dati reali non ci si poteva fidare”.
Questo creava a Lilli e soprattutto a Erna qualche resistenza nel relazionarsi con lei.
Edith scrive che lei pure vedeva in Rose queste debolezze e ne soffriva, ma scelse di non sottrarsi alla relazione con lei; al contrario, operò per renderla più profonda e autentica.
Ecco cosa racconta Edith:
“Quando cominciai l’università fui presa anch’io dal fascino che Rose sapeva esercitare. All’inizio fu lei la parte dominante nella nostra amicizia, ma non per molto. La fermezza con la quale formavo le mie opinioni e le sostenevo di fronte a chiunque, e più tardi anche la capacità di dare contributi scientifici personali, fecero sì che ottenessi una forte influenza su di lei. Quando gli altri la abbandonarono, avemmo un profondo scambio di idee. Alle sue lagnanze replicai francamente che trovavo i rimproveri che gli altri le muovevano assolutamente giustificati. Non le tacqui neppure il modo in cui mi spiegavo i suoi difetti. Tuttavia non avrei assolutamente considerato gli errori di una persona come un motivo per ritirarle la mia amicizia. Ella accettò tutto ciò che le dicevo con gratitudine e senza suscettibilità, e da allora in poi si legò a me in modo ancora più stretto. Credo che il rapporto che aveva con me fosse completamente diverso da quello con le altre persone. Il fatto che io non la vedessi sotto la sfavillante luce di fuochi del Bengala, ma alla spietata luce del giorno, era per lei certamente doloroso, ma ciò le forniva d’altra parte una tranquillità e una sicurezza che altrimenti le mancava. Questo non l’ha mai detto, e io non so neppure se se ne sia resa conto. Solo, si sentiva spinta a scrivermi di tanto in tanto quanto fosse grande il suo amore per me; talvolta aggiungeva che si trattava di un «amore infelice». Questo era vero nel senso che un rapporto del genere non poteva essere reciproco. Ma anch’io ho sempre serbato una sincera amicizia e un’affettuosa inclinazione nei suoi confronti”.
Il capitolo prosegue poi con una narrazione piuttosto dettagliata dei momenti di svago vissuti dalle quattro amiche. Un esempio tra molti possibili:
“In estate, la nostra gioia più grande fin dalla prima infanzia era costituita da una gita familiare in campagna. Mia madre affittava allo scopo una grande carrozza, e la domenica si andava molto presto nel bosco; venivano portati viveri per poter pranzare nel bosco. Ci si premuniva sempre affinché, oltre alla ristretta cerchia familiare, ci fosse spazio anche per diversi ospiti. Prima venivano invitati i nostri cugini e cugine, ora le famiglie amiche”.
O ancora:
“ Durante le vacanze estive del 1911 e del 1912, mentre tutti noi studiavamo a Breslavia, il quartetto inseparabile si recò per alcune settimane sulle montagne slesiane”.
E prosegue il racconto di quella vacanza.
Più oltre:
“L’inverno 1912-1913 ci vide ancora insieme in slitta a Schreiberhau”.
Perché diciamo questo? Perché altrimenti corriamo il rischio di deformare la figura di Edith Stein. Ella è indubbiamente una intellettuale, una persona dal pensiero serio, profondo e rigoroso, fortemente orientata allo studio. E’ però anche una persona ricca di amicizie significative, che sa ritagliarsi spazi di sano svago, che sa vivere il tempo del relax e della distensione. Una persona, dunque, che cresce verso l’età adulta in maniera armonica, senza trascurare aspetti dell’esistenza e senza svilupparne altri in maniera ipertrofica.
Queste vacanze sono vissute da Edith negli anni finali della scuola superiore, cioè dopo la ripresa degli studi che, come abbiamo già avuto modo di dire, ella fece all’inizio della adolescenza.
Quando sospese gli studi si recò ad Amburgo, dalla sorella Else. Sia la decisione di sospendere come di riprendere gli studi non fu presa da Edith “a cuor leggero”, ma in obbedienza a un impulso interiore.
La scelta di interrompere gli studi sorprese molto i suoi familiari, anche perché il rendimento di Edith era cosa nota. Scrive:
“Dalla prima infanzia in poi tutti i miei familiari mi avevano attribuito principalmente due caratteristiche: rimproveravano la mia ambizione (a ragione), e mi chiamavano, ponendovi l’accento, l’«intelligente» Edith. Entrambe le cose mi facevano molto soffrire. La seconda perché mi sembrava volesse dire che mi vantavo della mia intelligenza. Inoltre mi pareva che questa espressione significasse che ero soltanto intelligente; ed io sapevo bene fin dai primi anni di vita che era molto più importante essere buoni piuttosto che intelligenti”.
Nel suo libro “Zia Edith. Eredità ebraica di una santa cattolica” la nipote Susel annota che Edith portò fino alla morte questa sorta di ferita interiore, dovuta al fatto che gli altri notassero in lei principalmente - quando non esclusivamente - l’aspetto dell’intelligenza, tralasciando il resto.
Tornando alla scelta di lasciare la scuola, se stupì molto i familiari, per Edith essa si impose quasi come necessità interiore, perché la scuola non rispondeva più alle sue istanze di crescita. Così ne parla:
“Il distacco dalla scuola non mi fu difficile. Per il momento ne avevo abbastanza di imparare. Non ero attaccata a nessuno tra i miei insegnanti e le mie insegnanti. le infatuazioni adolescenziali mi avevano sempre fatto orrore: non ne avevo mai sofferto e avevo preso in giro gli altri per questo motivo”.
E’ indubbiamente una adolescente un po’ “sui generis” Edith, che però sa vivere relazioni mature. A proposito delle compagne di scuola infatti scrive:
“Keathe fu per molti anni la mia compagna di banco e ci intendevamo bene. Durante le pause o sulla strada per la scuola discutevamo spesso di quelle questioni che venivano trattate troppo brevemente a scuola: come in me, anche in lei si era risvegliata una seria ricerca della verità”.
E’ questo che rende Edith particolare rispetto alle sue coetanee: questo precoce svegliarsi della sete della verità le impone una ricerca che, di necessità, impone un contenimento dell’aspetto emozionale che, nella adolescenza, diventa catalizzante della gran parte delle energie vitali.
Nel tempo trascorso ad Amburgo Edith si vede più apatica intellettualmente rispetto al tempo precedente, ma il notevole irrobustimento fisico può dare ragione di un necessario spostamento delle energie vitali. Così si descrive:
“ Tuttavia, fisicamente, mi irrobustii velocemente; l’esile bambina acquistò una pienezza quasi da donna fatta. Dal momento che, oltre a ciò, i miei capelli biondi si scurirono molto, dopo il ritorno a Breslavia quasi non mi si riconosceva più”.
Come si vede, è l’intera persona di Edith che cresce, avviandosi con decisione verso la giovinezza.
A tutti in famiglia era però chiaro che la sospensione degli studi non poteva che essere un fatto temporaneo. Forse ne era consapevole anche Edith; certamente però non si fece influenzare dalle pressioni esterne. Così narra:
“ Tutta la famiglia aspettava con impazienza che prendessi una decisione riguardo al mio futuro. I fratelli mi fecero persino alcune proposte. Poiché da bambina mi piaceva fare molti disegni, mi domandarono se volessi frequentare la scuola d’arte. Io rifiutai perché era evidente per me che non avevo abbastanza talento. Una volta mio fratello Arno mi condusse da un fotografo suo conoscente e prese informazioni riguardo alle condizioni per la formazione nel suo studio. Io stetti a sentire tutto quanto e lasciai che la cosa si acquietasse da sola. Non potevo agire finché non si fosse manifestato un impulso interiore. Le decisioni scaturivano in me da profondità a me stessa sconosciute. Quando una cosa simile era entrata alla chiara luce della coscienza e aveva assunto una salda forma mentale, allora nessuno poteva più trattenermi; ricavavo una specie di piacere sportivo dall’impormi qualcosa di apparentemente impossibile”.
Il tempo della chiarezza giunge ed Edith, mediante lezioni private, si prepara a entrare nella 7° classe del Liceo femminile Scientifico, lo stesso frequentato dalle sue sorelle.
Per la preparazione all’ingresso nella 7° classe si affida a 2 insegnanti, uno di matematica e uno di latino (per le altre materie Edith si arrangia da sola). L’esperienza con i due tutors è assai differente. A suo giudizio quello di matematica è persona poco attendibile, arriva spesso in ritardo e durante le lezioni è portato ad avviare conversazioni private. Ovviamente questo trovava poca risposta in Edith! Ben diversa la soddisfazione rispetto al dottor Marek per il latino, con il quale la relazione era assolutamente circoscritta alla materia e il ritmo di lavoro era intenso. Questo non rivela ovviamente un ritrarsi dell’adolescente Edith dalle relazioni, ma piuttosto la ritrovata chiarezza di obiettivi da raggiungere e il livello di competenza che comunque sempre la caratterizza. Il sapere ciò che vuole rasserena Edith al punto tale che arriva a scrivere:
“Questi sei mesi di instancabile lavoro mi sono sempre rimasti in mente come il primo periodo completamente felice della mia vita. Ciò dipende probabilmente dal fatto che per la prima volta tutte le mie capacità intellettuali erano impiegate in un compito adeguato”.
Molto interessante quest’ultima affermazione: per Edith conoscere è indispensabile come respirare!
Gli anni del Liceo sono per Edith fecondi; studia, come abbiamo detto, non per primeggiare in maniera vanagloriosa, ma perché è per lei indispensabile come nutrirsi e come respirare.
E’ così lontana dal pavoneggiarsi che mette sempre a disposizione i propri lavori e anche il proprio tempo per le compagne.
Così racconta:
“In principio non sapevo se al liceo vigessero gli stessi usi della scuola femminile riguardo al suggerire e al copiare di nascosto. Al primo compito in classe la mia amica Julia mi schiarì le idee con un amichevole incoraggiamento. Da allora seppi ciò che dovevo fare e misi sempre il mio quaderno in modo che la vicina potesse comodamente gettarvi uno sguardo”.
Per Edith le relazioni con le compagne sono importanti. Al di là che non ama essere elogiata in pubblico, è attenta a che la sua bravura non diventi ostacolo per le altre.
Racconta:
“Il professor Olbrich [...] dopo un po’ di tempo cominciò a portarmi come esempio agli altri; questo erasempre molto penoso per me. Una volta disse che era necessaria una grande fermezza di carattere per avere dei risultati in un tale ambiente. Non fece nomi, ma subito dopo la fine dell’ora le mie compagne di scuola mi salutarono come quella che era «ferma di carattere». Un’altra volta, in una classe diversa, disse: «Nella classe sotto la vostra viene prima la signorina Stein, poi una lunga pausa, e infine le altre». La notizia si diffuse in tutta la scuola e di lì quasi in tutta la città. Questo mi irritò particolarmente, perché poteva disturbare l’armonia con le compagne di classe”.
Per Edith la scuola è davvero il suo habitat naturale, ma non il tutto della sua vita. Scrive:
“Gli anni del liceo furono un periodo felice. In 7° classe l’adattamento mi costò ancora qualche sforzo; gli ultimi due anni furono un gioco. Quando non avevamo da fare un tema, per le quattro avevo quasi sempre finito i compiti e avevo il resto del pomeriggio libero per le mie occupazioni preferite. I libri di letteratura che lessi in quel periodo costituirono una provvista per tutta la vita. Mi furono molto utili in seguito, quando io stessa dovetti dare lezioni di letteratura. Una gioia ancora maggiore della letteratura la ricavavo dal teatro. In quegli anni, l’annuncio della rappresentazione di una tragedia classica era per me un invito personale. [...] Non meno delle grandi tragedie amavo le opere classiche. [...] Per Bach avevo un amore particolare. Quel mondo di purezza e di rigorosa conformità alle norme mi attraeva dal più profondo del cuore. In seguito, quando imparai a conoscere il corale gregoriano, mi sentii per la prima volta come se fossi a casa mia, e di lì capii che cosa mi aveva tanto commosso in Bach”.
Arriva il tempo della maturità, che viene ben superata. Il giorno dopo però, oltre a essere tempo di relax, è occasione di profonda meditazione. Così narra Edith:
“ Il giorno successivo a quello dell’esame rimasi a letto un po’ più a lungo del solito. Mi portarono su la posta; c’erano già lettere di congratulazioni - tra cui una dello zio David con l’invito di andare a Chemnitz. Lessi e poi rimasi a letto a riflettere tranquillamente. Il grande senso di felicità che mi ero aspettata di provare dopo gli esami non c’era, sentivo piuttosto un grande vuoto interiore. Un modo di vivere caro e familiare era finito per sempre. Cosa sarebbe successo ora? Pensavo alle obiezioni inespresse dal buon zio riguardo alla mia scelta professionale. Avevo veramente preso la decisione giusta? Siamo al mondo per servire l’umanità... Questo si può fare nel migliore dei modi, facendo qualcosa per cui si ha una vera predisposizione... Ebbene... La conclusione mi appariva ineccepibile. Mi scrollai di dosso tutti i dubbi e quello stesso giorno scrissi la lettera risoluta che ho già menzionato”.
Lo zio David è quello che, un paio di anni prima, era riuscito a convincere la sorella Erna a iscriversi alla facoltà di medicina, nonostante la sua prima propensione verso le materie umanistiche. Non così con Edith.
E’ molto importante focalizzare quest’ultimo concetto espresso da Edith: non siamo al mondo per noi stessi e non siamo chiamati a far girare cose e persone attorno al nostro Io: siamo stati creati per servire gli altri. Certamente lo possiamo fare meglio se traffichiamo i talenti naturali che abbiamo tra le mani, ma la cosa importante è proprio questo decentramento da se stessi e questo mettersi al servizio dell’intera umanità. Molto interessante poi che lo affermi con tale chiarezza una Edith che, in questo momento, è assolutamente laica, lontana da ogni credo religioso!
Questo essere al mondo per servire l’umanità è anche la chiave che spiega il livello altissimo di preparazione a cui Edith punta qualunque attività intraprenda. Non per vanagloria o per un tratto di perfezionismo personale, ma perché gli altri hanno il diritto a essere serviti con assoluta competenza; l’alternativa infatti sarebbe, oltre la nostra superficialità, un prendere in giro il prossimo e non un servirlo!