Il capitolo 6 che ha per titolo: “Dal diario di due cuori di ragazze”. Il riferimento è, naturalmente, a Edith stessa e alla sorella prediletta Erna.
Per collocarci nello spazio e nel tempo, ricordiamo che Edith ha terminato i primi due anni di studio all'Università di Breslavia, ove ha approfondito soprattutto la psicologia con il dott. Stern, la pedagogia, la storia e la germanistica. Ha partecipato in maniera molto attiva alla vita universitaria, facendo parte di numerosi circoli e associazioni studentesche. La psicologia però, che tanto l'aveva attratta, per come era affrontata in quell'Ateneo, l'aveva fatta giungere alla conclusione che essa versava ancora in uno stato primitivo e, soprattutto, che non solo essa mancava degli elementi indispensabili per autofondarsi, ma che nemmeno era in grado di elaborarli in maniera autonoma. La lettura delle “Ricerche logiche” di Husserl l'aveva invece convinta che era alla fenomenologia che era tempo di guardare e che era Husserl il filosofo del tempo. Così Edith si accingeva a lasciare Breslavia per recarsi a Gottinga, ove il Maestro Husserl l'aveva ammessa a frequentare il primo corso.
Erna invece, convinta dallo zio David al termine della scuola superiore, si era iscritta alla facoltà di medicina a Breslavia. Ugualmente il suo fidanzato, Hans Biberstein.
Il capitolo 6 si apre proprio con il racconto di Erna e Hans, inseparabili, intenti a preparare l'esame conclusivo del biennio della Facoltà di medicina. E' l'estate 1911.
Mentre Erna superò tale esame a pieni voti in tutte le discipline, Hans, nonostante il suo zelo, la sua ambizione e le sue doti fu respinto in zoologia. Questo non pregiudicò il superamento del biennio, semplicemente dovette ripetere questo singolo esame. Per lui fu però uno smacco notevole, si offese e per lungo tempo si trascinò questo risentimento. Nemmeno Erna, con tutta la sua dolcezza, riuscì a dargli sollievo e arrivò al punto da non riuscire a gioire per la sua personale vittoria. Fortunatamente l'esame di Stato andò meglio ed entrambi lo superarono a pieni voti. Entrambi sostennero poi l'esame orale di laurea prima ancora di aver terminato la stesura della propria tesi (persino l'argomento era comune! Ricerche sierologiche entrambi, sui topi bianchi Erna, sui conigli Hans). E' l'inizio dell'estate del 1914. Erna ed Hans, finiti gli esami, che hanno richiesto molto impegno, desiderano un momento di riposo, che vorrebbero trascorrere insieme. Per la mentalità del tempo questo e' assolutamente impensabile: sia la famiglia Stein sia la famiglia Biberstein pongono un veto assoluto. Edith si fa avanti con un invito: perche' non si recano entrambi da lei a Gottinga? La proposta venne approvata dal consiglio di famiglia, cosicché Erna e Hans possono trascorrere un po' di tempo insieme, riposarsi e conoscere le bellezze artistiche e naturali di quella parte della Germania. Edith , con alcuni conoscenti, si prodiga a organizzare gite, per rendere piacevole il soggiorno ai due neolaureati. I momenti trascorsi insieme sono sereni, senza nubi; non così quelli trascorsi da Erna e Hans da soli, turbati invece da discussioni. Nulla però di irreparabile..
Poche settimane dopo questo soggiorno a Gottinga, scoppia la Prima Guerra Mondiale. Hans si presenta immediatamente per andare al fronte e viene arruolato come medico militare di grado inferiore. Fu destinato a un treno-ospedale e questo gli permette di tornare di frequente a Breslavia o, comunque, talmente vicino a casa che sua madre ed Erna possono recarsi in visita da lui. Più tardi però viene promosso a medico militare delle truppe al fronte a poi ufficiale. Gli incontri si rendono così impossibili.
Mentre Hans è al fronte, a Erna viene offerta la possibilità di fare da assistente in clinica ginecologica: chance resa possibile proprio dalla partenza per il fronte di molti medici, essendo quella una clinica molto ambita e affollata. Erna acconsente prontamente, insieme alla amica Lilli. L'attività è dura e piena di responsabilità, le due giovani dottoresse sono spesso chiamate nelle case dei poveri per assistere a parti pericolosi, in condizioni assolutamente disagiate. Agitazione a parte, e' una esperienza davvero feconda dal punto di vista professionale, Erna, insieme all'amica, soggiorna di frequente presso la clinica, per essere disponibile anche alle chiamate notturne.
Contemporaneamente alla pratica medica, conclude anche la sua tesi e raccoglie materiale – libri e riviste – per Hans, in modo che in breve tempo anch'egli possa consegnare la sua.
Durante l'assenza di Hans, Erna si porodiga anche nello stare vicino alla signora Biberstein, andando a trovarla praticamente ogni giorno. Si comportava con lei come una vera nuora, sebbene non portasse ancora il titolo di moglie.
Dopo 18 mesi di lavoro presso la clinica ginecologica a Erna viene offerta la possibilità di un posto all'istituto di puericultura a Berlino. Dopo essersi consultata con Edith, Erna accetta, ritenendo utile un completamento di formazione per la sua futura attività di ginecologa. Nell'ottobre 1916 lascia Breslavia, accompagnata da Edith che si reca invece a Friburgo (Husserl ha infatti lasciato l'Università di Gottinga e si è trasferito in Brisgovia: Edith, che è in tesi con lui, lo segue in questo nuovo Ateneo). La famiglia è un po' in apprensione perché a Berlino molti sono I disordini sociali per le vie, ma il bene lavorativo di Erna viene anteposto a tutto il resto.
Nella Pasqua del 1917 Edith torna a Breslavia per le vacanze. Fa tappa a Berlino, ove trascorre un giorno e una notte presso la sorella Erna. Edith, raccontando di questa sosta, apre uno squarcio esistenziale fino a ora rimasto in silenzio. Vale la pena ascoltarlo dal suo stesso racconto:
“La sera parlammo ancora a lungo tra noi. Le domandai dei suoi rapporti con Hans Biberstein, poiché sapevo che nel cuore aveva molte cose che avevano bisogno di esprimersi. Qualche tempo prima Lilli mi aveva rivelato che Erna aveva timore di cominciare certi discorsi con me, perche' credeva che non comprendessi quel genere di cose. Questa idea, che probabilmente era condivisa dall'intera famiglia, non corrispondeva assolutamente al vero. Pur con tutta la mia abnegazione al lavoro, portavo nel cuore la speranza di un grande amore e di un matrimonio felice. Senza avere alcuna conoscenza della dogmatica e della morale cattolica, ero tuttavia impregnata dell'ideale matrimoniale cattolico. Tra i giovani che frequentavo c'era qualcuno che mi piaceva e mi accadeva anche di pensare a lui come al futuro compagno della mia vita. Ma di ciò, quasi nessuno si accorgeva, sicché alla maggior parte delle persone io dovevo apparire fredda e inavvicinabile. Anche Hans Biberstein mi piaceva molto, ma fin dall'inizio avevo stabilito che non l'avrei mai preso in considerazione, poiché mi era assai chiaro il genere di sentimento che Erna nutriva per lui. Mi era un po' dispiaciuto che lei si fosse confidata con le sue amiche e non con me; ma potevo capire come cioè fosse accaduto e sapevo che parlare con me le avrebbe dato grande sollievo”.
E' molto interessante questo passaggio. Edith mostra un lato della sua personalità che, generalmente, custodisce con grande cura: l’affettività.
Si dimostra sensibile all'amore, che non banalizza: come suo tipico, lo incastona in una cornice più ampia di valori e in un progetto di vita preciso. Al contempo, pensando alla persona adatta a lei, non assolutizza se stessa. Avrebbe potuto mettersi in competizione con Erna – visto poi che Hans non era indifferente alla amicizia di Edith -, ma la relazione sentimentale va per Edith inserita in un contesto più ampio di relazioni, tra cui quella con la sorella Erna. Edith preferisce rinunciare a se' piuttosto che ferire Erna.
Forse tale scelta non e'da tutti condivisa. Come abbiamo avuto già modo di sottolineare in precedenti conversazioni, leggendo una autobiografia noi non siamo chiamati a condividere tutto ciò che l'autore dice o fa, ma siamo chiamati a comprendere dal suo punto di vista. Questa e'la lettura empatica, che ci permette di capire veramente l'altro, il suo mondo interiore.
Questa e' certamente una occasione per mettere in atto tale lettura empatica.
Tornando al racconto autobiografico, nell'estate 1917 Erna e le inseparabili amiche Lilli e Rose si recano a Friburgo da Edith. E' l'occasione per stare di nuovo tutte insieme e compiere gite nella Foresta Nera, come da adolescenti già avevano fatto tra le montagne della Slesia.
L'anno successivo invece Rose e Lilli decidono di conoscere posti nuovi, cosicché solo Erna torna da Edith. E' l'occasione per discutere insieme una decisione importante per l'attività lavorativa di Erna: aprire uno studio medico nella parte sud della città, ove avrebbe avuto come pazienti le ricche famiglie ebree, o restare a nord-est, tra le famiglie proletarie o, al più, della media borghesia? Erna è persona modesta, non desidera accumulare grandi fortune: le basta guadagnare il necessario per vivere. Edith appoggia questo modo di vedere della sorella, cosicché la decisione viene presto presa. Vista la disponibilità della mamma, l'ambulatorio sarà aperto al pian terreno della loro casa, proprio al 38 di Michaelisstrasse. Erna lascia cosi' la turbolenta Berlino e torna a Breslavia, con sollievo per il resto della famiglia.
Anche Hans, dopo un poco di tempo, torna dal fronte, dopo una separazione di diversi anni.
Un giorno Hans compare a casa Stein, vestito dell'abito nero della festa per chiedere, rispettando tutte le formalità, alla signora Stein la mano della figlia Erna. Il fidanzamento viene festeggiato da entrambe le famiglie con grande gioia.
Subito dopo una separazione attende però Erna e Hans: volendo diventare dermatologo, deve recarsi a Berlino per un anno di tirocinio di specializzazione. Avendo forte nostalgia di casa, Hans si seppellisce nel lavoro, ma con animo cupo.
Edith , nel 1919, ha occasione di recarsi due volte a Berlino, perciò I due si incontrano e trascorrono insieme ore piacevoli, nei quali sembrava risuscitare. Edith pero' fa una triste annotazione. Ecco cosa scrive:
“Era molto grato per queste visite, che tuttavia rafforzarono in lui una silenziosa rabbia perche' Erna non andò mai a Berlino durante tutto quel periodo. In questo egli vide un segno di indifferenza, e le serbo' rancore anche molti anni dopo che furono sposati. Certamente Erna aveva non meno di lui il desiderio di rivederlo, ma doveva badare al suo giovane ambulatorio e la famiglia si sarebbe sicuramente opposta al progetto di un viaggio a Berlino «senza un particolare motivo»; poiché Erna era facilmente influenzabile, questo le bastava per rinunciare al suo inespresso desiderio. Hans avverti' senz'altro l'influenza della famiglia, e questo fu l'inizio di un atteggiamento ostile da parte sua che si acuì sempre di più”.
Qui abbiamo un esempio tipico di atteggiamento non-empatico, cioè di incapacità di guardare le cose dalla prospettiva dell'altro, ma solo a partire da sé, dai propri bisogni e dai propri desideri.
Erna apre il proprio ambulatorio l'1 febbraio, rendendo nota l'apertura tramite avviso pubblicato sui giornali. Gia' la notte tra il 31 gennaio e l'1 febbraio però il campanello di casa suona: un signore chiede a Erna il suo intervento a favore della moglie. Sono residenti entrambi in una casa proletaria, in una zona molto buia della città.
L'ambulatorio si avvia in una maniera sorprendentemente veloce.
Un'altra volta Erna viene chiamata la notte. Non trova altro mezzo di trasporto che una slitta aperta. E' pero' inverno e questo le porta come conseguenza un catarro bronchiale notevole. Questo, assommato a uno stato di notevole affaticamento, la portano alle soglie di un evidente esaurimento fisico: l'aspetto peggiora e dimagrisce a vista d'occhio.
Nel frattempo Hans torna definitivamente a casa e comincia la sua attività alla clinica universitaria. Trovando la fidanzata ammalata, si adira, quasi fosse una offesa personale. Il suo comportamento è apostrofato da Edith, che pure gli vuol bene, da “bambino viziato”. Le impone la misurazione quotidiana della febbre, fino a che non sentenzia che i polmoni sono danneggiati. Naturalmente questo spaventa molto la signora Stein, che prontamente spedisce la figlia sui monti dei Giganti per qualche settimana.
Edith non perde l'occasione per esercitare la sua influenza su Hans.
Cosi' scrive:
“Quando Erna partì, diedi una strapazzata a mio cognato e gli chiesi di assicurarmi che l'avrebbe lasciata in pace durante quel periodo di riposo e non l'avrebbe tormentata con il minimo rimprovero o lamentela. Se lui o sua madre si fossero sentiti offesi da qualunque membro della famiglia – una eventualità che, per esperienza, si sapeva di dover affrontare a brevi intervalli – doveva parlarne con me; io avrei cercato col più grande impegno di mettervi riparo. Dopo qualche tentennamento mi diede ascolto”.
Tanto Erna è dolce e remissiva, tanto Edith è risoluta!
Tuttavia, sicuramente per l'affetto che comunque lega Edith ad Hans, queste prese di posizione risultano salutari.
Così ancora Edith scrive:
“Durante quelle settimane, quando Hans aveva un peso sul cuore, mi veniva a prendere e io lo accompagnavo in clinica. Talvolta ci davamo appuntamento in clinica e insieme andavamo a fare una visita al numero 38 della Michaelisstrasse. Cosi' conobbi per esperienza personale il genere di discussioni in cui Erna veniva continuamente coinvolta; ne fui molto meno colpita di lei […] Queste discussioni tra Hans e me servirono soltanto a consolidare l'antica amicizia. Ricordo che una volta, durante una di queste conversazioni, disse in tono molto affettuoso: «Tu sai che, dopo Erna, sei la persona per la quale nutro più fiducia – quasi illimitata». Non ci bisticciavamo più come talvolta accadeva nel nostro periodo di studi. Ciò dipendeva dal fatto che il mio atteggiamento nei confronti delle persone e di me stessa era radicalmente cambiato. Per me non aveva più importanza avere sempre ragione e «sopraffare» l'avversario in ogni modo. E se avevo pur sempre uno sguardo penetrante per le debolezze degli altri, non lo adoperavo per colpirli nel loro punto debole, ma per averne riguardo. Anche l'indole pedagogica, che mantenevo ancora, non mi era di ostacolo. Avevo imparato che molto raramente si riesce a migliorare gli altri «dicendo la verità»: questo può riuscire solo quando essi stessi nutrono l'esigenza autentica di divenire migliori e accordano a qualcun altro il diritto di critica. Cosi', anche in quei discorsi con mio cognato, la cosa più importante per me era imparare a conoscere meglio lui e sua madre nella loro indole tanto diversa dalla nostra. Per questo, in seguito, sono stata spesso in grado di aiutare Erna”.
Sono perle di saggezza importantissime queste. Innanzitutto la modalità di utilizzo dei doni che abbiamo: se per natura riusciamo a comprendere la struttura dell'altra persona, con facilita' ne individuiamo I punti deboli, questo deve essere da noi utilizzato non per ferire l'altro, per piegarlo a noi, ma per servirlo, per proteggerlo, per avere maggiore riguardo di lui. Secondo punto, noi possiamo solo cambiare noi stessi! L'altro e' persona libera e autonoma: siamo chiamati a conoscerlo e a rispettarlo nella sua diversità, verso di lui non possiamo avanzare aspettative o pretese. L'altro cambierà, migliorerà, solo e se e nella misura che vorrà; e noi potremo dargli una mano, essergli al fianco, solo se egli liberamente ce lo chiederà. Il nostro aiuto non può essere imposto! Se solo tenessimo costantemente presente questi due punti, le nostre relazioni con gli altri sarebbero sicuramente più serene e pacifiche, più rispettose...
Il capitolo 6 termina con la descrizione degli ultimi tempi di fidanzamento di Erna e con il suo matrimonio. Il racconto di Edith e' molto interessante e vale la pena ascoltarlo da lei.
“Durante tutto quell' anno rimasi a Breslavia. Per la verità, il terreno mi bruciava sotto i piedi. Mi trovavo in una crisi interiore che avevo tenuto nascosta ai miei familiari e che non si poteva risolvere a casa nostra. Ma non volevo andar via prima che il destino di Erna fosse stato deciso. Il periodo che precedette le nozze fu un lungo tormento prolungato. Quando, al mattino, lei saliva dalla nostra stanza in mansarda, di solito ero già alla scrivania a lavorare. Entrava regolarmente per farmi il resoconto di ciò che era accaduto la sera prima. I due fidanzati stavano insieme ogni giorno a casa dei Biberstein o da noi. Spesso i suoi discorsi iniziavano con queste parole: «Non so più che fare, sono alla disperazione». Allora la facevo sedere sulla sedia davanti a me (la mia amica Trude Kuznitzky la chiamava sempre la «sedia dell'orario di visita»), mi facevo raccontare tutto e facevo del mio meglio per consigliarla. Il mio criterio era sempre questo: cedere in tutto ciò che non fosse un'ingiustizia.
Dopo quelle conversazioni, più sollevata, scendeva a fare colazione e poi le ore di ambulatorio. Per lo più si trattava di casi simili a quello che ho già portato ad esempio. Tuttavia, dietro a tutto ciò, c'era qualcosa di più serio. Quando, contrariamente a tutti i suoi progetti giovanili, Hans aveva deciso di sposarsi, aveva tenuto per fermo che non si sarebbe separato da sua madre, ed Erna aveva acconsentito a che lei si trasferisse a casa loro. Ma tutta la famiglia l'aveva sconsigliata di governare la casa insieme con la suocera, e lei stessa ne aveva timore. Anche i parenti di Hans, che si erano subito affezionati alla sua fidanzata bella e gentile, cercarono in segreto di persuadere mia madre a non lasciare che ciò avvenisse: Erna avrebbe avuto troppo da soffrire. Mia madre affermava abbastanza spesso in presenza della signora Biberstein che lei si era sempre riproposta di non andare ad abitare a casa di uno dei suoi figli. Praticamente la questione fu risolta dal fatto che non si trovò un appartamento adeguato. Era impossibile alloggiare anche la madre nella mansarda. Inoltre, lei avrebbe dovuto tenere il suo appartamento a sud della città per assicurarlo ad Hans nel momento in cui avesse voluto aprire uno studio. Così, non fu necessario che gli interessati parlassero esplicitamente di quell' argomento pericoloso. Tuttavia, mamma Biberstein e Hans avvertirono chiaramente quanto i miei familiari fossero contenti di quella separazione, per loro tanto dolorosa, e si accorsero che la stessa Erna tirò un sospiro di sollievo. E da questo derivò quell' ostilità - in particolare nei confronti di mia madre - della quale ho detto prima. Entrambi divennero completamente ciechi riguardo alle sue grandi doti umane e la trattarono con così poca considerazione come altrimenti non le era quasi mai accaduto. È comprensibile che lei si sentisse offesa da questo atteggiamento e che non potesse venire affettuosamente incontro al genero. Più ancora di ciò che succedeva a lei, mia madre aveva a cuore i patimenti che sua figlia doveva sopportare, e avrebbe presumibilmente sopportato per tutta la vita. Questa preoccupazione diveniva a volte tanto grande da farle prendere in considerazione uno scioglimento del fidanzamento, malgrado lei, da autentica madre ebrea, non poteva concepire nulla di più appassionante di vedere ben sposata sua figlia. Quando Erna era «alla disperazione», talvolta questa idea sfiorava anche lei. Ma io non permettevo che prevalesse. Ero fermamente convinta che i due fidanzati fossero destinati l'uno all' altra e che la vita di Erna, soprattutto, sarebbe stata distrutta se il matrimonio non si fosse realizzato. Speravo anche che le cose sarebbero cambiate in meglio non appena si fossero sposati, poiché molti malintesi sarebbero scomparsi da sé attraverso l'affiatamento della vita in comune.
Il matrimonio venne celebrato all'inizio di dicembre. Furono necessari due giorni, poiché anche i nostri ampi locali non erano sufficienti a contenere il gran numero degli invitati. La sera del matrimonio civile vennero i nostri cugini, le nostre cugine e le amiche più intime: Lilli e Rose con i loro fidanzati. Al matrimonio religioso e al successivo pranzo di nozze furono invitati soltanto i fratelli degli sposi con i loro figli e i fratelli dei genitori (cioè: al matrimonio vennero tutti i parenti e conoscenti, ma coloro che non erano stati invitati se ne andarono subito dopo). Visti i numerosi parenti, solo per questa «ristretta cerchia» fu necessario un tavolo per oltre 50 persone.
Dal punto di vista della salute, le cose per me andavano veramente male, probabilmente a causa delle lotte interiori che attraversavo di nascosto e senza l'aiuto di nessuno. Il mattino del matrimonio civile, mentre gli ultimi pesanti mobili venivano portati su per le scale, ero sdraiata sulla chaise-longue in una delle stanze da letto in preda a violenti dolori e trasalivo ad ogni rumore. Quando Erna a un certo punto salì, disse che non poteva vedermi così e mi diede un po' di morfina. La sera ero di nuovo vivace. Al principio non partecipai alle danze. Ma mentre, già a tarda ora, mi trovavo al fianco di Hans, cominciò improvvisamente una melodia vivace e familiare. «Non è un Dreher?», domandai. Questo ballo era venuto in voga mentre eravamo studenti ed io l'avevo imparato da Hans. «Sì», rispose lui, «hai voglia di ballare? Non ho osato chiedertelo finora perché non ti sei sentita bene». Cominciammo e ballammo fino in fondo quella danza un poco selvaggia. Poi, mentre Hans voleva condurmi a sedere, la musica si trasformò in un valzer lento. «Allora», disse, «ora dobbiamo far vedere alla gente che sappiamo ballare anche elegantemente», e ballammo anche tutto il valzer. Fu l'ultima volta che ballai per davvero. Dopo diversi anni l'ho fatto ancora un paio di volte con le mie alunne, quando mi pregavano insistentemente, il martedì grasso.
Il matrimonio religioso venne celebrato in casa nostra. lo allestii il salone insieme con mio fratello Arno. Nei matrimoni ebraici la sposa siede prima in un posto appartato, mentre lo sposo prega con il rabbino e altri uomini - devono essere almeno dieci - in un'altra stanza. Poi il rabbino pronuncia una benedizione su di lei, prima che lo sposo la porti, in solenne processione, sotto il «cielo delle nozze» per il matrimonio vero e proprio. Mettemmo la poltroncina per Ema vicino a un pilastro tra due finestre, dove solitamente era collocata la mia scrivania. Alla parete c'era un quadro di san Francesco del Cima. «Dobbiamo toglierlo di lì», disse Amo, pensando che il santo fosse un testimone poco adatto ad un matrimonio ebraico. «Lascialo in pace», replicai, «nessuno ci farà caso». Il quadro rimase al suo posto. Ema era una sposa insolitamente bella. Sedeva tra due piante verdi come una principessa orientale sulla poltroncina ornata per la liturgia. lo guardai il san Francesco sopra il suo capo e fu per me una gran consolazione vederlo lì.
Dopo il matrimonio, gli sposi partirono per i monti dei Giganti. Ema mi scrisse da lì una lettera traboccante di felicità. Doveva dirmi come fosse bello, perché sapeva che ne avrei gioito con lei. Ora ero tranquilla e mi sentivo libera di occuparmi di me stessa”.
Cosa trarne? Fondamentalmente nulla di nuovo, se non ribadire il concetto già più volte espresso: l'altra persona va accolta per quello che è, nel suo dato di realtà, nei suoi limiti e nelle sue potenzialità. Noi possiamo solo cercare di conoscerla, comprenderla e, con il nostro atteggiamento, agevolarla nell'esprimere il meglio di sé. Non possiamo pretendere di cambiarla e nemmeno di “migliorarla”, secondo naturalmente il nostro punto di vista. Questo è un vero cammino ascetico, di continua morte a noi stessi perche' l'altro viva. Con uno slogan, potremmo definire questo cammino “l'ascetica della relazione”... il più vicino al comandamento lasciatoci da Gesù “amatevi l'un l'altro come Io vi ho amato”.