EDITH STEIN
EDITH STEIN

L'esame di laurea a Friburgo in Brisgovia

 

La notizia dell’improvviso trasferimento di Università del Maestro mette in ansia Edith. A Husserl infatti viene offerta la cattedra a Friburgo in Brisgovia ed egli prontamente accetta la nuova nomina. Per Edith si tratta dunque di discutere la tesi in un Ateneo completamente sconosciuto e davanti a docenti mai incontrati prima, fatto salvo Husserl. Questa novità è per lei fonte di ansia e di preoccupazione, ma il Maestro la rassicura dicendole che Friburgo avrebbero accolto i suoi laureandi con la stessa apertura di mente e di cuore che avevano riservato alla sua persona. Dunque non sembrava esserci alcunché da temere.

Il tempo delle vacanze di Pasqua viene impiegato da Edith per dettare alle cugine, abili dattilografe, la sua tesi.

E’ un lavoro piuttosto impegnativo, perché la mole non è da poco.

Così Edith lo descrive:

 

“…la dissertazione aveva assunto dimensioni enormi. In una prima parte, ancora sulla scorta di alcuni accenni di Husserl nelle sue lezioni, avevo esaminato l’atto dell’ “intuizione” come un particolare atto della conoscenza. Di lì, tuttavia, ero arrivata a una cosa che mi stava particolarmente a cuore e di cui mi sono occupata in tutti i miei scritti successivi: la costruzione della persona umana. Nell’ambito di quel primo lavoro, questo esame era necessario per far capire come la comprensione dei nessi intellettuali si distinguesse dalla semplice percezione di condizioni psichiche”.

 

Il tempo libero viene invece impiegato per la preparazione dell’esame orale.

Appare qui una una nota sulla persona di Edith mai incontrata precedentemente e che, per questo, vale sicuramente la pena evidenziare. Così scrive:

 

“Mi preparavo anche sotto altri punti di vista al grande viaggio. Da quando ero entrata nel servizio scolastico, avevo ritenuto necessario scegliere con grande cura i miei abiti. Mi appariva chiaro quanto si venisse osservati quando si stava alla cattedra davanti a delle giovani ragazze, e non volevo dare nell’occhio né per trascuratezza, né per eccessivi ornamenti. Per il viaggio bisognò procurarsi qualche cosa di nuovo. Per l’esame mia madre mi regalò il mio primo vestito di seta. (A quei tempi i vestiti di seta si portavano soltanto in occasioni solenni. Le mie sorelle lo ebbero nel loro corredo soltanto quando andarono in spose. Soltanto negli ultimi anni di guerra, quando non si trovavano più tessuti di lana, gli abiti di seta si portavano tutti i giorni). Scegliemmo insieme un tessuto di seta pesante e morbido, di un color prugna spento”.

 

Sembra così strano trovare in Edith una annotazione così tipicamente femminile! In realtà, a una lettura non superficiale di queste righe, possiamo cogliere come da un lato Edith non è affatto insensibile alla dimensione estetica dell’esistenza, ma dall’altro come sia assolutamente lontana da ogni qualsivoglia tipo di frivolezza o di eccentricità. Edith non vuole attirare su di sé l’attenzione, né per troppa trascuratezza né per eccessiva ricercatezza; lei ricerca una sobria eleganza, in modo tale da non distogliere mai l’attenzione degli altri dall’autentico focus, che non è la sua persona, ma ciò di cui lei parla, sia dalla cattedra se sta rivestendo il ruolo di insegnante, sia dal tavolo degli esaminandi se sta discutendo la tesi di laurea. Questo è un punto su cui vale sicuramente la pena soffermarsi a riflettere.

 

Per la prima volta dunque Edith si trova a oltrepassare la “linea del Meno”, essendo il sud della Germania ancora totalmente sconosciuto per lei.

Durante il viaggio una tappa intermedia la rallegra particolarmente. Vale la pena ascoltare le sue parole:

 

“La prima grande gioia mi aspettava a Dresda. Hans Lipps era là da sua madre; il mio primo giorno di vacanza era l’ultimo per lui; potemmo incontrarci a Dresda e viaggiare insieme fino a Lipsia. Mi aspettava alla stazione. Anche lui si era irrobustito durante la guerra e aveva una bella presenza con la sua uniforme grigioverde e i gambali di cuoio. Non avevamo abbastanza tempo per andare a trovare sua madre. Così, aspettammo la partenza del treno in un caffè nei pressi della stazione. Ci scambiammo notizie sulle persone della nostra cerchia ed egli chiese: «Appartiene anche Lei a quel club di Monaco di Baviera che va tutti i giorni a Messa?». Dovetti ridere di quel suo buffo modo di esprimersi, pur percependo acutamente la mancanza di rispetto contenuta in quelle parole. Si riferiva a Dietrich von Hildebrand e Siegfried Hamburger, che si erano convertiti e ora dimostravano un gran fervore. No, io non ero tra quelli. Avrei quasi detto: «Purtroppo no». «Ma di che cosa si tratta in realtà, signorina Stein? Io non ci capisco niente». Io capivo un poco, ma non potevo dire molto in proposito.

Ci sedemmo uno di fronte all’altra in uno scompartimento di seconda classe, e per la maggior parte del tempo restammo da soli. Al suo viaggio di andata, Lipps era andato a trovare il maestro a Friburgo. «Sa se ha già letto qualcosa della mia tesi?». «Neanche per idea! Me l’ha fatta vedere. A volte slega la cartellina, tira fuori i quaderni, li soppesa un po’ e dice con compiacimento: Guardi che lavoro notevole mi ha mandato la signorina Stein! Poi li rimette nella cartella e lega il tutto di nuovo». «Questa e proprio una bella prospettiva», dissi ridendo.

Gli raccontai della mia attività scolastica e delle ore di latino. Improvvisamente Lipps mi interruppe: «Ah, signorina Stein, non può immaginare quanto mi sento inferiore rispetto a Lei!». Io scossi il capo: «Com’è possibile, visto che proprio queste cose Lei le ritiene inferiori?». «Queste cose - sì…» Ma l’impressione era quella. Del resto era assolutamente reciproca. Già in precedenza le sue espressioni concise mi avevano rivelato una profondità di opinione accanto alla quale tutti i miei lavori parevano abborracciature. E anche ora era la stessa cosa per me”. 

 

Edith non si smentisce, è riservata come sempre. Eppure da queste righe ben si intuisce come Hans Lipps non le sia affatto indifferente e come ad attrarla non è tanto la sua mente vivace e poliedrica, bensì il suo essere, la sua persona.

A Lipsia Edith si separa da Hans Lipps e nella notte viaggia fino ad Heidelberg. Qui si incontra con Elisabeth Staiger, figlia del matematico Felix Klein, conosciuta nel Natale 1915 dai Reinach. Qui visita il castello, il Neckar, ammira i manoscritti dei poeti e dei cantori dell’epoca cavalleresca conservati nella biblioteca dell’università. 

C’è però una cosa che la colpisce maggiormente. Ecco cosa Edith scrive:

 

“E tuttavia ci fu di nuovo qualcosa che mi rimase impressa più di queste meraviglie: una chiesa interconfessionale che era separata da una parete nel mezzo e veniva utilizzata da una parte per le funzioni cattoliche e dall’altra per quelle protestanti”.

 

Un’altra tappa è Francoforte, ove incontra Pauline Reinach. Ascoltiamo Edith:

 

“Avevamo molto da dirci, mentre andavamo a spasso per il centro storico che mi era tanto familiare dai «Pensieri e ricordi» di Goethe.

Ci furono tuttavia altre cose che mi fecero più impressione del Römerberg e dell’Hirschgraben. Entrammo per qualche minuto nel duomo e mentre eravamo lì in rispettoso silenzio, entrò una donna con il suo cesto della spesa e si inginocchiò in un banco per una breve preghiera. Per me era una cosa del tutto nuova. Nelle sinagoghe e nelle chiese protestanti che avevo visitato ci si recava solo per la funzione religiosa. Qui invece qualcuno era entrato nella chiesa vuota nel mezzo delle sue occupazioni quotidiane, come per andare a un colloquio confidenziale. Non ho mai potuto dimenticarlo”.

 

Se consideriamo queste parole unitamente a quelle poco prima riportate sulla chiesa interconfessionale e sulla risposta data ad Hans Lipps circa quello da lui inopportunamente definito “il club di Monaco di Baviera”, si può ben comprendere come Edith si stia interiormente spostando sempre di più dall’anima allo spirito e dunque come la domanda esistenziale di senso si stia orientando sempre più verso la dimensione trascendente. All’ingresso nella Chiesa cattolica mancano però ancora oltre 5 anni, anni di domande e di ricerca, perché, ormai lo sappiamo, Edith scava profondo in sé e nelle cose, non si accontenta di argomentazioni banali e risposte già confezionate.

Il 12 luglio 1916 Edith giunge finalmente a Friburgo in Brisgovia e per prima cosa cerca alloggio a Günterstal, secondo le indicazioni fornitele dall’amica Suse Mugdan. Questo è un paese incorporato in un comune a sud della città, tra la pianura e la Foresta Nera. In questo modo Edith può abbinare i ritocchi ultimi alla tesi di laurea con un po’ di riposo per le vacanze.

Sistematasi, Edith si reca poi da Husserl. Lo trova indaffarato nella sua attività di docente nel nuovo Ateneo, indaffarato a tal punto da non aver trovato il tempo di leggere la tesi di laurea di Edith. Non solo, ma il Maestro le propone di non laurearsi ora ma nella sessione successiva e nel frattempo fermarsi a Friburgo per conoscere la città, vedere come lì egli si era sistemato  e, ovviamente, partecipare alle lezioni del suo seminario. Per fortuna a intervenire è la moglie del Maestro. Così Edith si trova a partecipare al seminario di Husserl tutti i giorni, salvo il mercoledì e il sabato, dalle 17 alle 18. Al seminario Edith incontra una vecchia conoscenza, Roman Ingarden, uno dei polacchi che appartenevano al circolo creatosi attorno a Husserl già prima della guerra. Di lui avevamo avuto modo di parlare, a suo tempo.

Anche la moglie di Husserl partecipa al seminario. Al termine lo attendono insieme fuori dall’Università per percorrere la strada del ritorno: gli Husserl infatti abitano in una spaziosa casa in affitto a metà strada tra l’Ateneo e Günterstal, dove alloggia Edith.

Durante uno di questi ritorni il Maestro dice a Edith che la moglie non gli dà pace circa la tesi di laurea e quindi che di sicuro la leggerà a breve; intanto la invita a recarsi dal decano per ottenere la data di discussione della tesi, ma… il più in là possibile!

Edith si reca dal decano della facoltà di filosofia e si accorda per il 3 agosto. 

Dopo di che abbina preparazione e vacanza. Racconta infatti:

 

“Dovevo anche pensare che ero in vacanza e dovevo riacquistare le forze per un nuovo trimestre. Il mattino presto salivo abitualmente da Günterstal a uno dei monti vicini con i miei libri, mi stendevo su un prato e studiavo per l’esame”.

 

A Friburgo Edith viene raggiunta dall’amica Erika Gothe, anch’ella in vacanza, desiderosa però di non lasciare Edith sola il giorno dell’esame. Insieme organizzano gite nella Foresta Nera e al Lago di Costanza. 

Accanto alle gite però le impressioni molto serie di attacchi aerei, il suono dello scoppio di granate, il fuoco d’artiglieria dei Vosgi, i cannoni di difesa.

Mentre Edith prosegue la preparazione, Erika studia la tesi di laurea dell’amica; insieme poi frequentano il seminario di Husserl. 

Una sera Edith ed Erika vengono invitate, insieme ad altre persone, dagli Husserl. In quella circostanza Edith conosce Martin Heidegger, persona molto chiusa e silenziosa, pieno di vita solo quando si tratta di argomenti filosofici.

La sera è spesso occupata in dialoghi tra le due amiche; durante uno di essi l’argomento è Husserl e la necessità che Erika vede che il Maestro abbia un assistente che lo aiuti a riordinare i suoi appunti e le sue bozze. Ecco come riporta la conversazione Edith:

 

“«Se pensassi di poter essergli utile», dissi infine, «lo farei io». Erika si meravigliò molto. «Sarebbe possibile? Non potevo farlo. Dovevo fare l’insegnante e guadagnare qualcosa». Non avevo un patrimonio del quale potessi vivere. Ma i conti non erano roba per me. L’avrei semplicemente fatto. Ma mi sembrava impossibile essere presa in considerazione. Io ero una piccola cosa e Husserl il primo tra i filosofi viventi - secondo la mia opinione, uno dei grandi che sopravvivono alla loro epoca e determinano la storia. Ma sapevo cosa fare. «Lo chiederò a lui stesso. Posso aspettare fino all’esame. Quando avrà finito di leggere la mia tesi, sarà in grado di giudicare meglio». Con ciò si concluse la nostra discussione e ci augurammo la buona notte”.

 

Il giorno dopo, di ritorno dal seminario, dal Maestro Edith riceve una grande gratificazione. Così Edith racconta:

 

“Il giorno dopo, alle 6 del pomeriggio, aspettavamo Husserl davanti al portone dell’università insieme con la signora Husserl; quando egli scese i gradini, disse alla moglie: «Va’ avanti con la signorina Gothe, io devo parlare con la signorina Stein». Così ci mettemmo in cammino a due a due. Io attendevo ansiosamente gli eventi. Già qualche giorno prima il maestro aveva detto, scherzando: «Il Suo lavoro mi piace sempre di più. Devo stare attento che non arrivi in alto». Ora continuò sullo stesso tono: «Sono già arrivato a un buon punto della Sua tesi. Lei è una piccola ragazza dalle grandi doti». Poi divenne un poco più serio. «Ho solo qualche dubbio se questo lavoro possa essere pubblicato accanto alle Idee nell’Annuario. Ho l’impressione che Lei abbia preceduto per qualche aspetto la seconda parte delle Idee». Queste parole mi dettero uno scossone interiore. Eravamo al punto in cui avrei potuto agganciare la mia richiesta. Ora bisognava cogliere subito la palla al balzo. «Se le cose stanno davvero così, signor professore, avrei qualcosa da domandarLe. La signorina Gothe mi ha detto che Lei dovrebbe avere un assistente. Pensa che potrei aiutarLa?». Stavamo per attraversare il Dreisam. Il maestro si fermò in mezzo al ponte di Federico ed esclamò con la più lieta meraviglia: «Vuole venire da me? Sì, con Lei potrei lavorare!». Non so chi di noi due fosse più felice. Eravamo come una giovane coppia al momento del fidanzamento. Nella Lorettostrasse c’erano Erika e la signora Husserl e guardavano verso di noi. Husserl disse alla moglie: «Pensa, la signorina Stein vuole lavorare con me come assistente». Erika mi guardò. Non vi fu bisogno di scambiarci una sola parola per comprenderci. Nei suoi occhi scuri e profondi, brillava la gioia più intima. La sera, nuovamente a letto, mi disse: «Buona notte, signorina assistente!».

La volta successiva che ci incontrammo con gli Husserl si fecero concitati piani per il futuro. Avrei dovuto tornare a scuola a Breslavia ancora per due mesi. Per il momento non c’era ancora chi potesse sostituirmi, e in autunno dovevo fare gli esami di latino alla maturità. Ma dal primo ottobre mi sarei liberata. Gli Husserl erano molto meravigliati che io volessi abbandonare l’insegnamento senza esitazione. La signora Husserl ne trasse la conclusione che dovessi essere molto facoltosa. Ad ogni modo, qualche anno dopo mi venne riferito che mi aveva fatto passare per tale. Parlammo seriamente della questione economica. Husserl disse che poteva darmi 100 marchi al mese. Con quella somma non avrei ovviamente potuto cavarmela, ma era comunque una grande facilitazione: i miei familiari avrebbero dato più facilmente il loro consenso. Acconsentii su tutti i punti. Queste cose erano penose per me e volevo liberarmene il più velocemente possibile”.

 

In effetti poi Edith sarà assistente, per un certo periodo, di Husserl, fino a che non comprenderà che quel ruolo non le si addice: è fatta per percorrere vie personali, non per essere al servizio di un altro, nemmeno se questi è il più grande filosofo vivente.

Finalmente arriva il 3 agosto 1916. Prima l’interrogazione di un’ora da parte di Husserl, che Edith definisce “confidenziale scambio di idee con il Maestro”; poi l’interrogazione sulle due materie complementari, 30 minuti ciascuna. Alle ore 20 l’esame viene concluso. Nell’atrio ad aspettare Edith c’è Erika e Roman Ingarden. Con loro festeggia cenando in un ristorante la “Summa cum laude”, il massimo voto possibile.

Per dopocena sono tutti e tre attesi a casa degli Husserl, ove Edith viene incoronata con edera e margherite.

Il giorno dopo Edith telegrafa a casa annunciando il voto ottenuto e l’ora di arrivo, parte per Gottinga ove saluta la signora Reinach e poi fa volta per Breslavia.

Così si conclude la “Storia di una famiglia ebrea”. 

 

 

 

                  

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