E’ molto difficile isolare Erna, la sorella immediatamente più grande di Edith, da Edith, perché proprio Edith parla di lei molto spesso all’interno della loro relazione. Forse è più corretto restare all’interno della cornice scelta da Edith stessa quanto ha titolato il cap. 2 della sua autobiografia “Il mondo delle due sorelle più giovani” e il cap. 4 “Del divenire delle due sorelle più giovani”.
Il cap. 2 si apre con una affermazione molto interessante. Scrive Edith:
“Mia sorella Erna e io vivevamo insieme come gemelle (...) ed eravamo, sia nell’aspetto che interiormente, «gemelle» assai diverse”.
Come stiamo ormai imparando a cogliere e ad apprezzare, in Edith c’è sempre una profonda consapevolezza del reale oggettivo e del reale soggettivo. Per reale oggettivo mi riferisco ai dati di fatto, quali ad esempio, il fatto che Erna ed Edith erano sempre insieme, avevano le amiche e gli amici in comune, vestivano nello stesso modo, le altre sorelle sceglievano per entrambe queste più piccole i medesimi libri da leggere e così via; per reale soggettivo invece mi riferisco al vissuto interiore di Edith, in particolare all’affetto molto forte e particolare che la lega a Erna, affetto certamente diverso rispetto a quello che prova per tutti gli altri fratelli e sorelle. Ogni persona ovviamente si muove all’interno di questo duplice aspetto del reale, ma pochi ne hanno chiara consapevolezza e ancora più chiara percezione dei contenuti che i due aspetti del reale presentano. Questo è invece un aspetto molto importante, perché più si è consapevoli di sé, del proprio mondo interiore, più si conosce chi si è, più si può vivere da protagonisti della propria esistenza. Il rischio altrimenti è quello che ci si lascia vivere, in percentuale variabile, ma pure sempre con passività.
Un’altra sottolineatura molto importante riguarda la scelta fatta da Edith per definire sé ed Erna: gemelle.
Tutti sappiamo quale particolare relazione intercorre tra i gemelli. Essi sono legati da qualcosa che supera di molto anche la più stretta relazione che può instaurarsi tra fratelli e sorelle. Edith non esita a definirsi “gemella” di Erna: ella, che ha una ottima conoscenza filologica e una perfetta padronanza della sua lingua madre, il tedesco, non sceglie le parole “a caso”. Se si è definita non sorella ma gemella di Erna significa che l’intimità della loro relazione era tale da potersi collocare all’interno di questa specifica cornice.
Edith però specifica anche che lei e sua sorella erano gemelle assai diverse. Come spesso ci troveremo a sottolineare, anche in questa circostanza Edith presenta un fortissimo senso di identità. Anche rispetto alla affettività, essa, pur essendo forte come quella che intercorre tra i gemelli, non è però di tipo fusionale, come talvolta può capitare. Edith resta sempre Edith, nella sua integrità di persona. Questo aspetto è di importanza capitale, perché in realtà è una testimonianza concreta di quella che è la peculiarità di Edith, l’empatia.
Un altro interessante esempio lo troviamo nel racconto squisitamente familiare che Edith fa del “giardino zoologico” del fratello, il quale aveva soprannominato tutti i membri.
Così scrive Edith:
“Nel giardino zoologico di mio fratello. Erna era la «cornacchia», ed io la «micetta». Se il mio soprannome sia dovuto al fatto che ai miei fratelli più grandi piacesse giocare con me come con un gattino, oppure al colore dei miei occhi, o all’abilità con cui sapevo sempre restare in piedi in ogni lotta coi più grandi, non lasciandomi mai «mettere i piedi in testa» - questo non lo so. «Cornacchia”, comunque, significava che Erna si irritava facilmente, benché i suoi accessi d’ira, in confronto a quelli di Rosa, fossero come il gracchiare della cornacchia rispetto al ruggito del leone. Erano solo lievi temporali e passavano presto. Per i resto era una bambina buona e obbediente. Le sorelle più grandi talvolta dicevano che lei era trasparente come un’acqua chiara, mentre di me si poteva dire che ero un «libro dai sette sigilli»”.
Interessante perché anche in questo caso emerge bene la qualità della relazione tra le due: unite, ma non fuse.
In questo secondo capitolo Edith parla poi della scelta della facoltà universitaria di Erna prima e di Edith poi, nonché del ruolo giocato dallo zio David, fratello della mamma, farmacista a Chemnitz. Da lui le due sorelle hanno trascorso le vacanze al termine del liceo da parte di Erna. Questa, durante il liceo, aveva manifestato particolari doti per lo studio delle lingue straniere, quindi filologia sembrava la scelta più opportuna per lei, che però, dal canto suo, non aveva assolutamente ancora le idee chiare sul suo futuro. Giunti dallo zio, questi cominciò a pressare Erna perché scegliesse la facoltà di medicina, non tanto perché vedesse in lei particolari doti o interessi per questa disciplina scientifica, ma perché “conveniente” dal punto di vista economico e sociale. Quando la sera le due sorelle si ritrovavano sole, Edith non cessa di esortare la sorella a non lasciarsi influenzare, ma a fare ciò che ella riteneva giusto. Da parte sua Erna garantiva che sarebbe rimasta ferma sulle sue posizioni... Edith fece rientro a Breslavia prima di Erna... e dopo pochi giorni alla mamma arrivò una lettera in cui Erna le chiedeva il benestare a iscriversi alla facoltà di medicina... Da parte di Edith non c’è alcun giudizio; sottolinea anzi come crede che Erna mai si sia pentita della sua decisione e di come abbia imparato a fondo il suo lavoro. D’altro canto però, quando fu la sua volta, sostenuto l’esame di maturità, di andare in vacanza dallo zio David, scrive:
“Quando, due anni dopo mia sorella, feci anch’io l’esame di maturità, fui di nuovo affettuosamente invitata a Chemnitz. Ringraziai e fui contenta di accettare, aggiunsi tuttavia che la mia scelta professionale era compiuta e non più in discussione. Davanti a questa dichiarazione lo zio depose le armi e non fece il minimo tentativo per farmi cambiare idea”.
Anche in questa circostanza Edith dimostra non solo di avere una personalità forte e decisa, ma di essere impegnata già da tempo nella formazione rigorosa della propria coscienza. Può infatti fare ciò che in coscienza ritiene giusto solo chi è in continuo contatto con la profondità di sé e chi è giunto a quella maturità umana che lo rende capace di ascoltare gli altri, ma poi di riflettere in autonomia, per poi decidere e restare fedele alla scelta fatta. Mentre Erna non sembra giungere a questo livello di maturità quando deve scegliere la sua professione, Edith vi giunge molto prima, già al tempo del liceo, quando appunto esortava la sorella a scegliere secondo coscienza, in libertà e autonomia.
Sempre poi a proposito della formazione in vista della professione, Edith fa una sottolineatura degna di nota. Parlando proprio di Erna, dice:
“In seguito, quando andavo ad aiutarla in ambulatorio, osservavo con intima gioia la tranquillità e la sicurezza che dimostrava nel farlo (...) Fu qui che appresi per la prima volta il valore di una solida tradizione d’insegnamento”.
In realtà già circa il momento della scelta della scuola superiore, quando sia Erna sia Edith hanno optato per il Liceo Scientifico, Edith annota:
“Con la mentalità della nostra famiglia, era tuttavia ovvio che il fatto di frequentare il liceo non fosse una condizione di lusso, ma la preparazione a un serio studio professionale”.
Cogliamo questa annotazione come una bella opportunità per richiamarci all’importanza dell’avere un maturo senso della responsabilità. Il puntare all’eccellenza, qualunque cosa si faccia, banale o complessa che sia, non è per esibizionismo, ma per profondo senso di responsabilità verso di sé e verso gli altri, che hanno diritto a essere serviti con competenza. Il pressapochismo, la superficialità, l’incompetenza, il puntare all’appena sufficiente, al cavarsela al pelo, sono segni di infantilismo. Sicuramente ci passano in questo momento davanti agli occhi volti di persone che anagraficamente appartengono alla fascia adulta, ma che, in realtà, adulti non sono... Questo serva a noi non per giudicare gli altri, ma per domandarci quanto competenti siamo noi nelle mansioni che siamo chiamati a svolgere: competenti non per vanagloria, ma per amore ai fratelli, per voler offrire loro un servizio che li rispetti veramente nella loro dignità...
Puntare all’eccellenza non è però sinonimo di essere stucchevolmente pesanti!
Edith ed Erna, assai competenti entrambe ciascuna nel proprio campo, hanno infatti la capacità di sapersi svagare e divertire.
A questo proposito Edith fa due annotazioni.
La prima riguarda il ruolo della lettura, che in casa Stein era tradizione consolidata.
A proposito di Erna scrive:
“Faceva il suo dovere, senza affaticarsi troppo, andava sempre abbastanza bene a scuola, pur non eccellendo. L’ambizione le era del tutto sconosciuta e fuori dalla scuola non dimostrava interesse per alcuna disciplina in particolare. Leggeva con piacere libri divertenti e poco impegnativi, poiché la lettura in generale aveva un ruolo importante nella nostra famiglia, ma non aveva desiderio di cimentarsi in letture più difficili”.
Certo molto diversa da Edith, che come primo libro, a 5 anni, legge la Maria Stuarda!
Edith come sempre non giudica, ma rileva le cose come semplici dati di fatto. Questo serve a noi come criterio di comportamento, perché è in generale molto facile tendere a giustificare a oltranza chi amiamo e a condannare altrettanto a oltranza chi mal tolleriamo, sfalsando in entrambi i casi il reale. Non solo, ma anche saper distinguere tempi e circostanze è segno di maturità.
Se si tratta della propria professione, allora, come abbiamo detto, l’eccellenza è dovere, ma se si tratta di svago, allora ognuno è chiamato a scegliere la modalità che gli è più consona: per Erna libri divertenti, per Edith altro, come vedremo a suo tempo. Anche imparare a conoscere quelli che, nel linguaggio di oggi sono chiamati “i canali sublimatori”, è importante: conoscere quelli più adeguati a noi, rispettare quelli degli altri, senza pretendere che essi usino i nostri stessi. Siamo infatti chiamati a camminare verso i valori, ma ciascuno percorrendo il proprio sentiero.
Sempre a proposito dello svago, Edith ed Erna hanno amicizie comuni. Nella sua autobiografia poi Edith racconta delle ore libere passate a giocare in inverno in casa, ma in estate al deposito del legname, con amiche di scuola, bambini del palazzo e soprattutto con i numerosi cugini e cugine.
A proposito dei parenti, Edith racconta dei due cugini gemelli provenienti dall’Alta Slesia e mandati a Breslavia a studiare.
Scrive Edith:
“Erano molto portati alla musica: passavamo lungo tempo al pianoforte. Con grande pazienza ci spingevano a suonare a quattro mani; persino io arrivai quasi alle sinfonie di Beethoven, malgrado non fossi in grado di ottenere la minima agilità delle dita. Quando fummo un po’ più grandi, andammo spesso insieme a teatro e ai concerti. Questa pluriennale amicizia si sciolse, senza ragioni apparenti, quando compii 16 anni e cominciai a frequentare il liceo. Tra i due avvenimenti potrebbe esserci una connessione interna: era il periodo in cui nei due gemelli, raggiunta l’età di 19 anni, si risvegliò il desiderio di «godersi la vita», e questo in forme che non potevano presupporre in noi alcuna comprensione. Nei circoli della borghesia ebrea vigeva ampiamente una «doppia morale» da me e mia sorella vivamente ricusata. A causa di questa diversità di opinioni, lo stretto rapporto che avevamo con i nostri parenti si allentò sensibilmente. Rimasero le dimostrazioni di amicizia e l’affettuosa partecipazione a tutti gli avvenimenti familiari, allegri o tristi che fossero. Tuttavia loro vedevano in noi un idealismo eccentrico e fuori dal mondo, mentre noi li trovavamo troppo frivoli”.
Questo ci dà occasione di riflettere su due cose importanti. La prima, a proposito di quella che Edith ha definito «doppia morale»: i canali sublimatori sono veramente tali quando comunque orientano la persona verso i valori alti, quando la aiutano a essere “più persona”, non quando sciolgono i freni inibitori al punto da lasciare la persona in balia dello scontrollo degli impulsi o da spaccarla a metà, quasi portandola ad avere una sorta di doppia personalità.
Una seconda considerazione invece riguarda il fatto che Edith impara a suonare il pianoforte, ma si scontra con il suo limite: dice infatti che non riesce a ottenere la minima agilità delle dita... lei che tanto amava la musica! Edith lo afferma con assoluta sincerità e semplicità; non solo, ma non si nota il benché minimo calo di autostima. Questo perché Edith ha maturato nella sua coscienza ove poggiare il valore della propria persona. Ognuno vale in quanto essere umano. La pietra angolare sicura su cui fondare la propria autostima è la consapevolezza della propria creaturalità: questo come dato del reale. Creaturalità che prevede di necessità capacità, potenzialità e limiti.
Per chi crede, però, l’orizzonte è assai più ampio: ciascuno è sì creatura, ma creatura amata da Dio! Dunque la pietra angolare dell’autostima può poggiare sul terreno dell’umiltà e della fiduciosa relazione con Dio Padre.
L’essere abile nel fare una cosa -ad esempio suonare il pianoforte- fa parte delle competenze che ciascuno ha o acquisisce. Indubbiamente la competenza può aiutare ad avere una buona autostima, ma non può esserne causa e fondamento. L’avere chiara questa distinzione permette a ciascuno di trasformare il limite in forma. Tutti abbiamo dei limiti: se li viviamo come menomazione, ne usciamo sconfitti, feriti, frustrati; se ne prendiamo serenamente atto senza lasciarci intaccare nell’autostima, i limiti, come le doti e le capacità, sono ciò che ci dà forma nell’esclusivo campo delle competenze, non aumentano o diminuiscono il nostro valore di persona. Pure questo processo di presa di coscienza di noi, questa capacità di introspezione, questo saper fare i distinguo, chiamando ogni cosa col nome corretto e collocandola nel giusto posto è segno di maturità umana. Edith anche da questo punto di vista ci è maestra e testimone.
Come ultimo accenno oggi, una affermazione di Edith:
“Per i lavori domestici avevamo poca inclinazione e non eravamo per niente contente quando ci veniva ordinato o di spolverare o di asciugare le stoviglie. Più chiamavamo in causa gli studi e più venivamo lasciate libere; non a nostro vantaggio, perché di qui risultò una certa unilateralità nell’educazione di cui in seguito mi sarei spesso rammaricata”.
Anche qui è ammirevole l’equilibrio di Edith: critica la formazione che in parte ha ricevuto e che in parte ha decisamente condizionato: riconosce errori e responsabilità, ma con estrema serenità. Edith è da sempre una intellettuale, eppure afferma che l’educazione per essere autenticamente valida deve essere ad ampio spettro e coinvolgere non solo tutta la persona, ma tutti gli aspetti della persona e della vita: quasi a dire una educazione a 360°. Questi temi verranno poi da lei ripresi e approfonditi nei suoi scritti e nelle sue conferenze sulla educazione e sulla donna.