EDITH STEIN
EDITH STEIN

Vita cristiana della donna

Si tratta in realtà non di una, bensì di quattro conferenze tenute a Zurigo a seguito dell’invito dell’Associazione Donne Cattoliche. In realtà Edith le tenne tutte in doppio: il 18, il 20, il 25 e il 27 gennaio 1932 nella sala parrocchiale della comunità dei Santi Pietro e Paolo e il 19, il 21, il 26 e il 28 nel Palazzo delle Associazioni Cattoliche. Tutte le conferenze sono accompagnate da esecuzioni musicali. Il ciclo ha risonanza sulla stampa locale - sebbene l’affluenza non è come gli organizzatori avevano sperato - e i testi vengono pubblicati integralmente sulla rivista “L’istruzione delle bambine su base cristiana”. Il manoscritto invece, purtroppo, non è conservato integralmente. Terminato il ciclo di conferenze, Edith parte per Beuron, l’abbazia benedettina ove risiede il suo direttore spirituale, l’abate Walzer; il 3 febbraio si trasferisce a Friburgo e alloggia dalle Benedettine di S. Lioba, fino a che il 29 febbraio non si trasferisce a Monaco in qualità di docente presso l’Istituto di pedagogia scientifica.

Edith apre la riflessione prendendo spunto da una domanda postale da una ragazza: perché, nell’attualità, si fa un gran parlare della questione femminile, anche da parte degli uomini. 

Due sembrano essere le posizioni, ovviamente agli antipodi: 

  1. da una parte la Chiesa, che presenta un ideale femminile assai alto e luminoso, che nasconde la speranza di una salvezza per l’intera umanità
  2. dall’altra il mondo letterario profano, che presenta la donna come una sorta di “demone degli abissi”

Ad accomunare le due estreme posizioni, l’attribuire alla donna la responsabilità della perdizione e/o della salvezza. 

In realtà questa non è una mera riflessione intellettuale - dunque sostanzialmente teorica -: la concretezza della vita quotidiana infatti ha repentinamente posto le donne in una situazione nuova, inaspettata, senza lasciare loro né il tempo di prepararsi né la possibilità di scegliere: per motivi prevalentemente economici, la donna si è trovata a dover contribuire con il lavoro retribuito al sostentamento della famiglia. Questa condizione ha portato con sé però alcune questioni:

  1. come conciliare il lavoro con le occupazioni domestiche? L’andamento della casa infatti è tradizionalmente mansione esclusivamente femminile
  2. come conciliare la professione con l’essere moglie e madre (e dunque l’educazione della prole, altra mansione prettamente femminile)?
  3. Svolgere una professione significa avere una specifica preparazione, dunque quale formazione per le donne? Il riferimento è alla scuola secondaria, ma anche all’università… 
  4. quali professioni per la donna?

Il fatto che le donne si siano trovate come catapultate dentro queste nuove dinamiche sociali non favorisce certo le pacate valutazioni e il discernimento; tuttavia non si può non rifletterci sopra.

Edith propone proprio un tempo di sosta per meglio comprendere su quale strada camminare e chiarisce subito quale sia la prospettiva:

 

Una riflessione del genere è quella che bisogna impostare adesso: tentiamo di gettare uno sguardo nell’intimo del nostro essere; vediamo che non si tratta di qualcosa di statico e di già compiuto ma di qualcosa che è in divenire, per cui ci sforziamo di far luce su tale processo; ciò che noi siamo e diventiamo, non resta chiuso in sé, ma necessariamente si ripercuote all’esterno; tutto il nostro essere, il nostro divenire e operare nel tempo, però, è ordinato sin dall’eternità e ha un senso per l’eternità, e può venir compreso con chiarezza solo se e nella misura in cui lo poniamo alla luce dell’eternità”.

La prima conferenza è intitolata: “L’anima femminile”. Edith si pone immediatamente la domanda se ha senso parlare di “anima delle donne”. Da un lato infatti ogni anima è unica e irripetibile, dall’altro la psicologia differenziale presenta non la singola persona, ma gli universali (quali ad esempio il bambino, piuttosto che non l’adulto, ecc). Esiste dunque una sorta di “tipo” della donna, che accomuna tutta la varietà di donne concrete, che può essere contrapposta all’anima dell’uomo?

Per rispondere a tale questione Edith fa dapprima ricorso alla letteratura, prendendo in considerazione alcune figure femminili.

La prima è Ingunn figlia di Steinfinn, descritta nel romanzo “Olav Audfnssøn” della scrittrice norvegese Sigrid Undset. Al di là della trama, è interessante comprendere perché Edith sceglie questo riferimento. E’ lei stessa a dirlo: 

 

Si fronteggiano, l’uno contro l’altro - come anche altrove in Sigrid Undset - due mondi, o meglio, due pre-mondi: il cieco istinto come il caos primordiale, e lo Spirito di Dio sulle acque. L’anima di questa creatura primitiva è come un campo che non è mai stato solcato dall’aratro. Vi sono semi capaci di germogliare, e il raggio di luce che li raggiunge da oltre le nubi desta un tremulo movimento nella vita che c’è in essi. Ma le dure zolle avrebbero dovuto essere preparate, perché essa potesse prorompere fuori”.

 

Commentando l’opera, Edith poi evidenzia come i personaggi presentati dall’autrice sono assolutamente reali. Vi è l’accentuazione da un lato dell’elemento istintuale, in opposizione a un intellettualismo e idealismo esagerato, che vorrebbe elevarsi al di sopra della natura al punto tale da rinnegarla.   

La seconda figura femminile presa in considerazione è Nora, la protagonista del testo teatrale “Casa di bambola” di Ibsen. Anche in questo caso rimandiamo alla lettura personale dell’opera chi ne fosse interessato. Qui ci preme evidenziare perché Edith ha fatto riferimento a questo testo.

Ella stessa scrive:

 

Nel momento del disinganno, Nora conosce se stessa e lui e il vuoto di questa vita in comune che non merita certo il nome di «matrimonio». E quando il pericolo dello scandalo sociale è passato ed egli le vuol benevolmente perdonare tutto e riportare tutto alla situazione originaria, ella non può più tornare indietro. Sa di dover diventare veramente un essere umano, prima di poter essere sposa e madre. Certamente anche Robert Helmer avrebbe dovuto diventare un essere umano e cessare di essere una semplice figura sociale, perché la loro vita comune potesse diventare un matrimonio autentico”. 

 

In quest’opera Edith fa notare l’assoluto contrasto, nella protagonista, tra il “prima” e il “dopo”: sembra quasi inverosimile, eppure rispecchia la concretezza di molte donne dell’epoca, cui il contesto sociale ha fatto loro aprire gli occhi. La seconda annotazione riguarda invece l’autore, Ibsen, che proprio nella modalità di descrizione della sua eroina fa trasparire di aver abbracciato la causa della donna e del movimento femminista: Nora non è dunque un’astrazione o una invenzione, ma il frutto dell’attenta osservazione di Ibsen delle tante donne in lotta per la propria emancipazione.

La terza figura è Ifigenia, presa dalla mitologia greca e rielaborata da Goethe: anima pura, che non sopporta l’infedeltà e la menzogna e che riesce a riportare la pace nella sua casa regale e la riconciliazione con gli dèi. Indubbiamente il personaggio è tratteggiato in maniera idealizzata, ma Edith fa una annotazione interessante:

 

…non si tratta di una costruzione della fantasia, bensì di una figura ideale vista, sperimentata e sentita nella vita. Tutto ciò che gli si presenta di «umanità pura» e nello stesso tempo di «eterno femmineo», il grande artista lo ha tratto fuori in forma plastica da se stesso, lungi da ogni intenzione tendenziosa. E questa immagine ci commuove, come può commuoverci solo ciò che è totalmente puro, eterno, vero”.

 

 

Ella si domanda innanzitutto quale legame possa esserci fra tre figure femminili tanto diverse sia per contesto storico-sociale-culturale, sia per personalità, sia per finalità dei rispettivi autori. Ecco come risponde:

 

Trovo in tutte e tre un tratto essenziale comune: un profondo desiderio di dare e di ricevere amore e, perciò, un anelito a venir elevate verso un modo di essere e di agire superiore, oltre gli stretti confini della propria esistenza concreta e attuale. […] In questo modo abbiamo colto l’anima femminile nel suo nucleo profondo? Naturalmente si potrebbero presentare moltissimi altri tipi di donna, ma io credo che, nella misura in cui sono tipi di donna, avranno tutti questa base comune. Diventare ciò che deve essere, far sì che si dispieghi e maturi nel modo migliore possibile la sua umanità ancora sopita, con quella particolare impronta individuale che essa ha in lei; farla maturare in quell’unione di amore che solo può avviare fruttuosamente questo processo di maturazione, e nello stesso modo stimolare e favorire negli altri il maturare della loro perfezione, questo è il desiderio profondo della donna, che può manifestarsi nei più vari travestimenti, anche nelle deviazioni e nelle degenerazioni”.

 

Questo concetto non ci è affatto nuovo: lo abbiamo trovato espresso praticamente in tutte le conferenze che abbiamo già preso in considerazione. Particolarmente bella è però, qui, l’affermazione che questa vocazione eterna della donna non viene mai meno: magari in modalità inadeguate, magari in forme distorte, ma sempre permane e cerca modalità di incarnazione. 

Edith accenna poi a quella che è la caratteristica dell’anima maschile, cioè il suo essere volto verso l’attività esterna, l’azione, le cose oggettive. Naturalmente però queste caratteristiche non sono un assoluto e non si escludono reciprocamente; come già abbiamo avuto modo di dire in passato, proprio nell’unicità di ogni persona è inclusa il suo possedere in maniera variabili sia le caratteristiche femminili sia quelle maschili dell’anima umana. Inoltre la persona è un continuo divenire, quindi la peculiarità crescono e maturano nel tempo. Perché questo accada una sola è la strada da percorrere, quella dell’esercizio.

La persona è chiamata a crescere in tutti gli aspetti del suo essere. Edith si sofferma in particolare a riflettere sulla relazione esistente tra la dimensione fisica della persona e quella più psicologica e rileva una diversa modalità, per l’uomo e per la donna, di vivere la relazione con la propria corporeità. Scrive:

 

Vorrei sottolineare che già il rapporto tra anima e corpo non è sempre lo stesso, che di solito nella donna il legame col corpo è naturalmente più intimo. Mi pare che l’anima delle donne viva e sia presente, con maggiore intensità in tutte le parti del corpo e venga toccata più intimamente da ciò che in esso accade; che nell’uomo, invece, il corpo abbia più spiccatamente il carattere dello strumento che gli serve per produrre, il che comporta una certa distanza. Tutto ciò dipende certo dalla vocazione della donna alla maternità: il compito di accogliere in sé un essere vivente che si sta formando, di proteggerlo e nutrirlo, esige una certa chiusura in se stessa e il misterioso processo di formazione di una nuova creatura nell’organismo materno è un’unità di corporeo e spirituale così intima, che si capisce bene come quest’unità appartenga a ciò che caratterizza tutta la natura femminile in generale”. 

 

Lo sguardo di Edith sulla persona è sempre unitario: sa cogliere con estrema chiarezza le peculiarità delle parti, restando però nell’inscindibilità dell’essere. Ha poi sempre ben presente sia il dover essere, sia i possibili rischi di degenerazione. Anche in questo caso non esita a segnalarle:

Perché fra anima e corpo viga il giusto ordine, conforme alla natura (cioè l’ordine che corrisponde alla natura incorrotta) al corpo vivente va dato il nutrimento necessario, la cura e l’esercizio che determinano una piena funzionalità dell’organismo. Non appena gli si concede di più - ed è proprio la sua natura corrotta a pretendere di più - lo si fa  a danno dell’anima, del suo essere spirituale; invece di reggerlo e di spiritualizzarlo, essa sprofonda nel corpo e questo, da parte sua, perde un po’ del suo carattere di corpo umano. Più intimo è il rapporto tra anima e corpo vivente, più grande sarà il pericolo di questo sprofondare (tuttavia, dall’altro lato, più grande sarà anche la possibilità che il corpo venga compenetrato dall’anima)”. 

 

La relazione tra corpo, anima e spirito non è meramente funzionale e nemmeno sono uno in funzione dell’altro, in una sorta di scala gerarchica. Essi sono le tre componenti della persona, ognuna con una sua autonomia e specificità, chiamate però a interfacciarsi una con l’altra, avendo per comune obiettivo l’armonia della persona tutta intera. La separazione delle tre parti, l’assolutizzazione di una delle tre o comunque l’ipertrofia di una a scapito dell’altra è frutto del peccato originate, di quella che Edith ha chiamato “natura corrotta”. La persona però ha la capacità di camminare sulla via della ricerca di un giusto equilibrio, per un corretto sviluppo del proprio essere, mediante la collaborazione dell’intelletto - che aiuta a conoscere la verità - e della volontà - che educa la vita affettiva, vero punto-forza della donna -. Il pericolo dello sviluppo unilaterale della persona è sempre in agguato e nella donna consiste nell’ipertrofia dell’affettività, che non è una grande capacità di amare, ma una modalità di cercare e di dare amore immatura, non in cooperazione con l’intelletto e la volontà. Dice Edith:

Ove manchi l’educazione dell’intelletto e la disciplina della volontà, la vita affettiva diviene un movimento tumultuoso senza direzione. E poiché all’affettività è necessario un qualche impulso per muoversi, se viene a mancarle la guida delle potenze spirituali superiori cade sotto il dominio della sensibilità. Ciò comporta lo sprofondamento della vita spirituale nella semplice vita sensibile e animale, favorita anche dal forte legame con il corpo. Pertanto l’anima femminile potrà giungere a quella maturità  che è consona al suo essere solo se le sue potenze saranno convenientemente formate”. 

Ritorna dunque prepotente il tema della formazione, inteso proprio come esercizio delle varie facoltà, perché la persona possa crescere e svilupparsi in maniera armoniosa, secondo l’autentico progetto di natura e non secondo gli squilibri derivati dal peccato originale.

Edith tratta delle forze formanti la donna nella sua 2° conferenza. 

 

La seconda conferenza porta il titolo “Formazione della donna”.

Edith esordisce con una affermazione di capitale importanza: la formazione non consiste in una sorta di opera plasmatrice esterna di un materiale inerte, bensì nel dare il via a un processo di crescita e di sviluppo di una sorta di “radice” che ha in sé l’energia per crescere e maturare verso quella che è la sua vera forma. E’ però vero che questo non si attua per sola forza interna, ma è necessario l’aiuto di molteplici fattori esterni, chiamati a operare in sinergia con i primi.

Come già accennato precedentemente, lo sviluppo avviene solo mediante l’esercizio e quest’ultimo necessita di un materiale a cui applicarsi. 

Per quanto riguarda il corpo, i sensi gli forniscono le impressioni da decodificare e rielaborare.

Per quanto riguarda l’anima, l’affettività veicola sentimenti e stati d’animo, mentre il lavoro del pensiero fa crescere l’intelletto.

A ciò va aggiunta l’influenza dei fattori esterni, scelti o inevitabili, operanti a volte in sinergia altre volte in conflitto. 

Terzo fattore educativo è l’autoformazione.

Intelletto e volontà operano secondo atti liberi, perciò la modalità di gestire l’affettività è, in ultima analisi, una scelta. 

La libertà entra in campo in realtà anche riguardo agli stimoli formativi provenienti sia dall’interno sia dall’esterno, perché essi sono appunto stimoli: è la persona che sceglie liberamente se accoglierli, se assecondarli, se respingerli. Vero protagonista perciò è la persona stessa, dunque l’autoformazione.

Edith però individua un soggetto di formazione che non è sottoposto a limitazione alcuna: Dio. Egli può agire dall’interno della persona. Afferma:

 

Egli può, dall’interno, rendere la volontà propizia a decidersi per quello che le viene proposto di fare (anche se Egli, con il dono della libertà, ha escluso ogni forma di regolazione della volontà umana in modo meccanicamente necessario)”.

 

E’ molto importante questa sottolineatura: Dio mai forza od obbliga la persona, agisce sulla volontà solo se, previamente, la persona ha dato il suo assenso.

Tenendo conto dell’uditorio, Edith si domanda come debba essere impostata una retta formazione della donna e individua tre condizioni essenziali:

  1. conoscere la natura dell’anima in generale
  2. conoscere la particolare natura dell’anima femminile
  3. conoscere le caratteristiche individuali delle singole persone.

E’ poi importante individuare quali influenze esterne hanno agito e/o agiscono sulle persone affidate alla nostra formazione, in modo tale da valutarne la portata, la sinergia o la contro-azione.

Essenziale è anche avere chiaro l’obiettivo formativo, che per Edith non può essere determinato in modo arbitrario: la Sacra Scrittura  e la sua esegesi, nella dottrina e nella tradizione della Chiesa, ampiamente mostrano quale sia la vocazione ultima della persona e della donna. Non approfondiamo ulteriormente questo aspetto, avendolo già trattato nelle precedenti conversazioni.

Edith si pone poi la domanda su cosa è possibile fare per contribuire alla formazione della donna, soprattutto in ambito scolastico.

Di nuovo focalizza il centro della questione, cioè l’educazione dell’affettività. Materie quali la storia e la letteratura sono in grado di avvincere l’animo femminile perché vi è in gioco il destino e le azioni umane; ugualmente quelle materie che fanno leva sulla bellezza e, in generale, sull’estetica. Suscitare emozioni è però solo il primo passo. Quello successivo è educare la persona a esprimere un giudizio di valore, cioè a prendere la distanza dall’oggetto per considerare la sua aderenza alla verità. L’opera educativa sta nel condurre la persona a gioire per la bellezza di ciò che è buono e vero, nonché a respingere e provare ripugnanza per quanto è invece volgare e meschino. Educare a prendere posizione personale di fronte a ogni cosa è formare al discernimento. Questo avviene solo se la persona viene messa a contatto sia con il bello e buono, sia con il negativo, presenti entrambi nella vita concreta di ogni giorno. E’ la quotidianità infatti il luogo privilegiato del discernimento, non solo in fase di apprendimento, ma per l’intera vita.

Altro fattore da non sottovalutare è il “contagio dei sentimenti”, soprattutto in età evolutiva. 

Scrive Edith:

 

E’ importante educare alla autenticità dei sentimenti, insegnare a distinguere le apparenze dalla realtà, nel mondo esteriore come nella propria anima. Ciò non sarà possibile senza un’adeguata formazione dell’intelletto. La semplice presa di posizione affettiva dovrà essere tradotta  in  conoscenza del valore, in cui intelletto e affettività cooperano in un modo ben preciso […] Chi comprende chiaramente perché definisce bello o buono qualcosa, non accetterà così semplicemente le prese di posizione altrui. Per distinguere, poi, nella propria anima ciò che è autentico da ciò che non lo è, ha particolare importanza, oltre alla critica operata dall’intelletto, anche la conferma nella prassi”.

 

Tre dunque i passaggi: educare l’affettività facendo ricorso all’intelletto, assumere posizioni personali e non accettare in maniera acritica le posizioni altrui, essere coerenti con le proprie posizioni intellettuali. 

Proprio in relazione a quest’ultimo aspetto, Edith fa notare come sia importante che la scuola non sia solo astrazione, ma preveda tempi e luoghi di esercizio della volontà: escursioni, feste, gruppi di lavoro ecc per educare alla vita sociale, che per la donna non è più limitata al suo futuro essere sposa e madre, ma che prevede anche una attività lavorativa fuori dalle mura domestiche. Siccome è caratteristica della donna l’amore fattivo, è indispensabile che la sua affettività sia solidamente formata, in modo da poter dare il suo contributo maturo all’intera società. 

In realtà la prospettiva ultima è il Regno di Dio, quindi è essenziale anche formare a una autentica vita religiosa. Dice Edith:

 

una formazione religiosa che sappia presentare le verità di fede in modo da toccare profondamente l’affettività e da stimolarla all’attività, e che riesca a insegnare, nei fatti, tutte le modalità dell’esercizio pratico della vita di fede in modo da incidere sull’anima per sempre. […] Possono svolgere un tale lavoro di formazione religiosa, naturalmente, solo personalità totalmente compenetrate dallo spirito di fede e la cui vita sia tutta plasmata da tale spirito”.

 

Edith si addentra poi nel particolare didattico, cioè quale specifico contributo può essere offerto da ogni singola disciplina, come anche quanto importante sia che l’offerta formativa sia adeguata alle capacità individuali.

 

La terza conferenza porta il titolo: “Attività femminili”. Essa si pone per obiettivo presentare alcune realtà che risultano essere particolarmente importanti per la donna.

Specifica anche il metodo che intende utilizzare. Scrive:

 

“Dobbiamo dunque attenerci, da un lato, a ciò che natura e vocazione della donna esigono per un’attività autenticamente femminile, d’altro lato a quegli esempi concreti, fornitici dall’esperienza, che abbiamo a disposizione. Cercheremo poi di chiarirci come l’essenza femminile si possa esplicare, nel modo che le è consono, all’interno del matrimonio, della vita religiosa e della libera professione”.

 

Le prime due non ci sono affatto nuove, avendo Edith parlato di ciò in altre conferenze su cui  abbiamo avuto modo di riflettere in passato.

La prima di esse è il suo essere sposa. Così dice Edith:

 

“La donna che, secondo le parole del racconto della creazione, è posta a fianco dell’uomo perché egli non sia solo ma abbia un aiuto che gli corrisponda, adempirà la sua vocazione sposa anzitutto facendo propri gli affari di lui. Gli “affari di lui” sono anzitutto, di norma, la sua professione”.

 

La donna ha due modalità di partecipare: una indiretta, facendo trovare al marito un contesto familiare il più possibile sereno, e una diretta, partecipando cioè al lavoro di lui come aiuto (ad esempio nelle attività commerciali, negli studi medici, ecc). Soprattutto in questa seconda circostanza la sua presenza è particolarmente equilibrante. Dice infatti Edith:

 

“La donna è aiuto dell’uomo «a lui corrispondente», però, non solo per il fatto che prende parte ai suoi affari, ma anche perché lo completa, controbilanciando i pericoli insiti nella natura specificamente maschile (in questa o in quella espressione caratteristica individuale). Sta a lei badare, per quanto può, che egli non si abbandoni totalmente alla professione, che non faccia avvizzire la sua umanità, che non trascuri il suo dovere di padre di famiglia. Tanto più sarà capace di ciò, quanto più la sua stessa personalità sarà matura; e questo comporta che nella vita in comune col marito ella non perda se stessa, ma sviluppi i propri doni e le proprie forze”.

 

Questo concetto non ci è certamente nuovo: più volte infatti Edith ha parlato del rischio, per l’uomo, di degenerazione della sua peculiare caratteristica: l’interesse per “la cosa”. La degenerazione è appunto la riduzione di se stessi al solo ambito professionale.

Edith parla poi della maternità, come compito tipicamente femminile. Naturalmente essa è strettamente connessa alla prima, cioè alla sponsalità, ma Edith fa una sottolineatura importantissima: la maternità non è solo subordinata alla sponsalità, ma è secondaria rispetto a essa. La donna è cioè chiamata per vocazione prima di tutto a essere sposa. Poi, indubbiamente, sarà anche madre, chiamata a generare ed educare figli, ma per poi rientrare pienamente nel suo essere sposa. Quella è la sua vocazione. Essere genitori è vocazione della coppia, porre l’amore per i figli prima dell’amore per il marito è degenerazione del rapporto sponsale… 

L’essere madre comporta un ruolo educativo molto preciso nei confronti dei figli; esso richiede alla donna il dispiegamento di tutte le risorse affettive, ma anche la vigile supervisione della dimensione razionale: i figli infatti non vanno trattenuti a sé, ma vanno accompagnati nella maturazione della loro propria identità… E il rischio di tenere i figli legati a sé per la donna è molto alto. Sono molto belle le parole di Edith:

 

“Il compito di condurre al dispiegamento, il più possibile puro e pieno, l’umanità specifica e individuale nel marito e nei figli, presuppone nella donna una profonda disposizione a un servizio dimentico di sé. Deve considerare gli altri non come una sua proprietà, né come un mezzo con cui raggiungere i propri scopi, ma come un bene a lei affidato. Questo le sarà possibile, però, solo se saprà vedere in loro delle creature di Dio, verso le quali deve adempiere un compito sacro. Già dispiegare la natura loro data da Dio è un compito sacro. In misura ancora maggiore lo è il compito di formarli per il Cielo, ciò in cui abbiamo visto il compito soprannaturale della donna: accendere nel cuore del marito e dei figli la scintilla dell’amore di Dio o renderla più luminosa. Potrà raggiungere questo obiettivo solo se considera se stessa uno strumento di Dio, e si prepara a esserlo”.

 

Questo richiamo alla dimensione soprannaturale è costante in Edith, segno della sintesi da lei raggiunta tra la dimensione umana e quella spirituale della persona.

C’è però un altro modo in cui la donna può essere accanto al marito condividendo la responsabilità del sostentamento familiare ed è quello di svolgere un lavoro all’esterno delle mura domestiche. Questo per noi è dato culturalmente acquisito, anche se le politiche familiari e la situazione lavorativa della donna in realtà non sono sempre coerenti con le affermazioni teoriche. 

Ai tempi di Edith invece la possibilità per la donna di lavorare fuori dall’ambito familiare era fresca acquisizione del movimento femminista, che ha trovato immediata applicazione anche a motivo della crisi economica in cui versava la Germania al tempo della Repubblica di Weimar. Tra l’altro, come semplice riferimento storico, l’avvento del regime nazista ha immediatamente riconfinato la donna all’interno delle mura domestiche , affidandole l’esclusivo compito di essere madre… il tutto detto con termini molto enfatici, ma per celare il vero interesse del Regime: avere giovani soldati per la guerra… 

Tornando a Edith, ella si domanda se esistono delle professioni che sono particolarmente adatte alla donna.  La risposta è affermativa. 

La prima che individua è quella medica. Certamente non tutte le donne sono idonee, perché è necessaria una particolare struttura fisica e psicologica per fronteggiare le difficoltà che essa comporta. Tuttavia il prendersi cura della persona risponde esattamente al naturale movimento dell’animo femminile. Edith fa poi una sottolineatura che, se già ai suoi tempi rivelava un pericolo, oggigiorno esso è infinitamente potenziato. La scienza medica ha acquisito moltissime competenze, grazie al progresso tecnologico. Questo ha inevitabilmente portato alla settorializzazione del sapere e alla specializzazione degli interventi. Il positivo è certamente quello di una competenza di alto livello. Il rischio però, che spesso si denuncia, è di sezionare la persona e di interessarsi solo della parte, scordandosi la visione di insieme. Nessuno infatti è un assemblaggio di organi, ma ognuno è persona… un “unicum”… Edith vede nell’essere tipico della donna un naturale rimedio a questa parcellizzazione. Così si esprime:

 

“L’atteggiamento specificamente femminile, che si orienta al concreto, all’essere umano nella sua interezza, è in grado di controbilanciare questo modo astratto di procedere, se solo la dottoressa ha il coraggio di seguire la propria ispirazione  naturale e di liberarsi, tanto quanto è necessario, da metodi appresi ed esercitati schematicamente […] Non si tratta soltanto di avere molta pazienza, di ascoltare molte cose che non si riferiscono immediatamente all’argomento; si tratta, piuttosto, di voler comprendere realmente l’intera situazione umana, il bisogno dell’anima che si nasconde dietro quello del corpo e che spesso è maggiore di questo, ed eventualmente di intervenire non solo con mezzi medici, ma portando aiuto come potrebbero farlo una madre o una sorella”. 

 

E ancora: 

 

“Se in un primo momento ci si avvicina a queste persone principalmente per curare le loro malattie fisiche […] vi è sempre la possibilità e, in fondo, la necessità di arrivare a comprendere tutto l’essere umano e di prestare la propria opera, per l’essere umano come tale”.

 

Edith sta sostanzialmente parlando della gestione del dolore emozionale, cioè di quella sofferenza che si genera nella persona a motivo dello stato di malattia organica e che va ad aggravare l’entità del dolore. Ignorarlo, focalizzandosi unicamente sull’organo malato, non è cosa buona; a dover essere presa in carico infatti è l’intera persona sofferente. Ebbene, la donna, per costituzione naturale, è particolarmente adatta a questo; la collaborazione tra uomo e donna perciò, all’interno ad esempio di una struttura ospedaliera, non può che arrecare benefici sia per i pazienti sia per la medicina stessa, perché arricchisce le prospettive e migliora l’intervento terapeutico. 

 

 

Una seconda professione che Edith prende in considerazione è quella di insegnante e di educatrice. Certamente qui parla per esperienza personale diretta, essendo lei appunto insegnante. 

La motivazione per cui questa è una professione particolarmente confacente per l’animo femminile è perché pone la donna a diretto contatto con gli altri esseri umani, con una missione educativa che ha affinità con il ruolo materno. Si tratta infatti di prendersi cura di giovani vite, accompagnandole nel loro processo formativo e nel loro inserimento nel mondo degli adulti. 

La situazione politica ed economica, come abbiamo già accennato, ai tempi di Edith era veramente pesante. Il livello di povertà era altissimo, la disoccupazione una vera piaga e non erano pochi i bambini malnutriti o che addirittura arrivavano a morire di fame. L’essere insegnante dunque significava venire a diretto contatto con questo tipo di problematiche sociali. I bambini giungevano a scuola gravati da pesanti situazioni familiari, di non semplice gestione. A questo si aggiunga la difficoltà, che è di sempre, di interfacciarsi con la famiglia e con le altre agenzie educative, cioè con tutti quegli influssi provenienti dal mondo extra-scolastico. La Germania del tempo inoltre era alla ricerca di nuovi modelli educativi. Come abbiamo già avuto modo di dire considerando altre conferenze, il sistema scolastico basato sui principi illuministici ormai non teneva più; lo scolaro non poteva essere più ritenuto una “tabula rasa” su cui incidere, passo dopo passo, infinite nozioni, secondo un sapere sostanzialmente enciclopedico. Al contempo però stentavano a essere trovate nuove forme. Lo Stato offriva la possibilità di nuove sperimentazioni pedagogiche, ma sostanzialmente si annaspava nel buio. Alcune correnti poi spingevano ancora verso modelli paradossali, considerando lo studente come - usando termini moderni - una sorta di hard disk su cui caricare il maggior numero possibile di informazioni, circa il maggior numero possibile di discipline. Ma ciò risultava completamente controproducente, soprattutto perché molti giovani, interessati ad apprendere i cosiddetti “mestieri”, si vedevano sbarrare la strada non a motivo di una non idoneità a svolgere una certa professione, ma a motivo dell’incapacità di sostenere un certo tipo di formazione scolastica, peraltro scarsamente o per nulla pertinente al mestiere. Trasportando in termini moderni, sarebbe come obbligare chi vuol svolgere la professione di idraulico, o di elettricista, a frequentare prima il liceo classico, poi ad apprendere le specifiche competenze del mestiere. 

La degenerazione dell’attività educativa della donna però esiste e non è di poco conto. 

La assidua frequentazione tra insegnante e studente porta infatti a una certa qual confidenza relazionale e non è raro che l’insegnante raccolga intimità più che non i genitori. Il rischio è quello di arrivare a sostituirsi a loro, diventando per lo studente il punto di riferimento non solo educativo extra-familiare, ma anche affettivo, quasi l’alternativa alla madre. Se questo accade, non solo si lega lo scolaro a sé, ma si entra in una dinamica relazionale innaturale, che non può portare buoni frutti. Naturalmente Edith indica anche la via per non cadere in questo errore:

 

“Mantenersi entro tali limiti sarà possibile, ancora una volta, solo se si intende la professione di educatore come una professione sacra, se gli allievi sono considerati come affidati dal Signore, e se si disciplina la propria personalità in vista di questo compito”.

 

Ancora una volta non possiamo non notare la sintesi tra la dimensione umana e quella soprannaturale che Edith ha raggiunto.

 

La terza categoria di professioni che Edith ritiene essere particolarmente adatte per la donna sono quelle cosiddette “sociali” e “politiche”, quali la presenza nelle amministrazioni comunali, statali, nei Parlamenti, ecc. Piccola nota storica: il diritto di voto alla donna, in Germania, risale al 1918, la loro presenza in politica ancora più recente (naturalmente subito revocata dal Terzo Reich). 

Il positivo che Edith vede nella presenza femminile in questo settore riguarda la capacità della donna di porsi nelle situazioni concrete della vita, quindi nel suo dare un contributo fondamentale affinché, nel legiferare, non si proceda in modo astratto e formale.

D’altro canto anche qui non mancano i rischi. Così li esprime:

 

“Certo c’è il pericolo di soddisfare la propria vanità e il desiderio di potenza, del vantaggio personale. Però, nelle mani giuste, le possibilità legittima disposizione possono essere utilizzate per andare incontro a tanti bisogni come una vera benedizione”. 

 

Nonostante i rischi, non si può che auspicare la presenza delle donne in ambito legislativo e amministrativo. Anche questo fatto è di estrema attualità.

Ancora Edith accenna agli ambiti delle scienze e delle arti, ma non si sofferma ad analizzarli.

La situazione economica drammatica però spesso pone le donne nella condizione di non poter scegliere l’occupazione extra-domestica più confacente ai loro talenti, ma a svolgere quella che concretamente si offre loro, essendo la priorità quella di portare a casa uno stipendio per poter garantire la sopravvivenza alla propria famiglia. Edith è sempre molto concreta nelle sue considerazioni. Così infatti si esprime:

 

“Certamente resta ancora tutta una serie di professioni che possono venir esercitate dalle donne ma che, per la loro natura oggettiva, non richiedono un’attività specificamente femminile o neanche soltanto la tollerano. Per donne che si trovano in tali settori occupazionali, in fabbrica, in ufficio, ecc sarà sempre bene tener presente che al di fuori dell’ambito lavorativo - nel posto stesso di lavoro, in casa o in comunità - hanno sempre tuttavia l’occasione di stare a fianco di esseri umani con la loro partecipazione, il loro aiuto, il loro incoraggiamento, dando prova in questo modo di autentica femminilità. Ovviamente, ciò presuppone una notevole forza di resistenza psicologica agli effetti micidiali della ripetitività del lavoro quotidiano”.

 

Questo per dire che le circostanze esterne possono essere avverse o favorevoli, ma mai nulla può impedire alla persona di essere autenticamente se stessa e di mettere le proprie risorse a servizio degli altri.

Un’ultima situazione di vita che Edith prende in considerazione è quella della scelta dello stato di vita consacrata. Edith individua immediatamente che a caratterizzare lo specifico non è certo la missione che la suora compie, perché per essere insegnanti, o infermiere, o altro non è affatto necessario essere suore. Lo specifico è la modalità di appartenenza al Signore. Qui si pone però subito un’altra questione: anche gli uomini possono scegliere di consacrarsi. Dunque le due modalità sono identiche, o c’è una modalità maschile e una femminile di vivere l’essenza della vita religiosa? Ovviamente Edith opta per la seconda possibilità. Così scrive:

 

“Nell’uomo come nella donna, l’abbandono completo di tutta la persona [al Signore, ndr] deve essere lo stesso; è la vera e propria sostanza della vita religiosa. Nella misura in cui è dedizione amorosa e abbandono in Dio che è l’amore e, nello stesso tempo, via per il perfezionamento del proprio essere, esso rappresenta il sommo compimento di ogni aspirazione femminile, della vocazione della donna; o meglio: il sommo compimento della vocazione dell’essere umano, vocazione che però, dalla donna, in virtù della sua natura, è sentita in maniera più intensa e ricercata in modo più immediato. […] Generalmente le cose stanno in questo modo: nei religiosi prevale il tipo dell’alter Christus, nelle religiose quello della sponsa Christi”. 

 

Molto bello poi il proseguimento:

 

“Se in questo sia da vedere un’incompletezza, di fatto, nella realizzazione dell’ideale, oppure una limitazione di principio, è ancora da esaminare. Era importante mostrare innanzitutto che dobbiamo vedere nella vita religiosa, considerata nella sua vera essenza, un’attività femminile autentica”.

 

E’ sempre commuovente vedere come Edith non abbia paura di interrogarsi e di interrogare la realtà, lasciando anche questioni sospese. La verità infatti non è mai acquisita una volta per tutte, è un cammino, un proseguire di verità in verità, fino alla pienezza, che sarà solo in Cielo.

 

La quarta conferenza porta il titolo “Vita femminile alla luce dell’eternità”.

Edith apre con una affermazione molto solenne:

 

E’ dall’eternità che proviene la vocazione della donna. Su fondamento eterno ella deve vivere, per realizzare in questo mondo la sua vocazione. Realizzandola, cresce nella vita eterna”.

 

Naturalmente il suo dire poggia sulla Sacra Scrittura, in particolare sul capitolo 1° del libro della Genesi, ove al versetto 27 si dice che Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza, maschio e femmina. Il fatto che Dio non abbia creato un modo unico di essere persona, ma come maschio e femmina significa che, accanto a una modalità universale di essere, ve ne è anche una specifica dell’essere appunto maschio o femmina. Entrambi immagine di Dio, ne rispecchiano un frammento, non la totalità; ciò significa che la modalità di manifestare l’immagine di Dio dell’uomo e della donna saranno differenti, entrambi autentici, ma anche entrambi parziali.

Edith fa poi un riferimento alla teologia di Agostino e di Tommaso i quali, riflettendo sulla Trinità, hanno entrambi attribuito al Padre l’essere, al Figlio la conoscenza e allo Spirito Santo l’amore. Naturale è stato perciò declinare questo sulla persona: essendo appunto immagine di Dio, predominando nell’uomo la dimensione intellettiva, egli è stato facilmente rimandato al Figlio. Lo Spirito Santo invece è colui che porta a pienezza la fecondità di Dio, perciò è stato posto in particolare relazione con la natura femminile.  In questo senso la donna, chiamata per natura a generare biologicamente la vita, in senso spirituale può veramente aiutare ogni essere umano a raggiungere un’esistenza autonoma e a dispiegarla nel miglior modo possibile. 

Riferendosi alla sequenza di Pentecoste, ove lo Spirito Santo è invocato consolatore e soccorritore, padre dei poveri e dispensatore dei doni, anche la donna può donare la sua ricchezza interiore esercitando le opere di amore e di misericordia che sono tipiche della sua natura, con purezza e dolcezza.

Modello di femminilità che Edith presenta è naturalmente l’Immacolata, che lo Spirito Santo ha ricolmato dei suoi doni. Perché ogni donna possa essere come lei, è indispensabile che custodisca in se stessa il medesimo atteggiamento interiore  di serva del Signore: solo in questo modo infatti il Salvatore può entrare nel mondo, essendo la donna libera da quell’orgoglio che lascia spazio solo all’autoaffermazione. 

Maria non è solo madre di Gesù, ma anche madre di Dio - come è stato proclamato nel 430 al Concilio di Efeso -. Questa sua divina maternità santifica, per partecipazione, ogni maternità. 

E’ però madre sempre vergine e questo testimonia la misteriosa fecondità della verginità scelta per il Regno dei Cieli. 

Ancora, Maria è regina, testimone della vittoria della forza dell’amore che serve, di quell’amore che ella ha vissuto e a cui ha dato carne.

Maria è infine immacolata, cioè senza peccato alcuno, nemmeno quello di origine: questo le permette di essere l’incarnazione della femminilità pura, così come Dio l’ha creata. Per questo è modello di ogni autentica attività femminile e, ancor più profondamente, a lei ogni donna può guardare per ritrovare la propria identità più profonda e genuina.

 

 

Edith non è mai teorica, quindi si domanda se, concretamente, la donna può essere in grado di vivere avendo Maria per modello. La risposta è affermativa, ma la condizione è assai categorica: deve aver percorso un cammino educativo e formativo, perché femmine si nasce, ma donne non ci si improvvisa. 

Così scrive:

 

La ragazza che non ha imparato sin da molto giovane, grazie a un’autoeducazione basata su solidi principi o dalle circostanze della vita, ad adattarsi, a rinunciare, a fare sacrifici, si sposerà con la pretesa di una felicità senza nubi, della piena realizzazione di tutti i suoi desideri. Se trova il marito propenso a soddisfarli, tanto meno imparerà a disciplinarsi, vorrà sperimentare fin dove può arrivare il suo potere e, quando arriverà al limite, nasceranno conflitti che condurranno alla rottura o a un reciproco logoramento, a meno che, al contrario, non provochino un ripensamento e un cambiamento interiore. Una tale donna, a meno che non abbia rinunciato fin dall’inizio ad assumersi il peso della maternità, non riuscirà a trovare il giusto rapporto coi figli”.

 

Anche però se la persona si educa alla concretezza della vita e alla fatica di costruire relazioni positive, se anche i due coniugi sono animati dai migliori propositi, la strada della vita insieme non è mai priva di fatiche. Il segreto che Edith addita per non soccombere al logorio quotidiano è la vita interiore, ove la persona fa esperienza di Dio. 

Dice Edith:

 

Questa fonte di forza inesauribile è la grazia di Dio. Importante è solo che si conoscano le vie che portano a essa, e ricorrervi di continuo. Una via è aperta in ogni momento per ogni credente: la via della preghiera”.

 

In modo particolare poi addita il Santissimo Sacramento, ove è possibile incontrare Gesù personalmente e intrattenersi con lui in intimo colloquio. Esso però rimanda al momento altissimo del Sacrificio Eucaristico: partecipando alla S. Messa infatti si entra in maniera attiva nell’opera redentiva di Gesù. 

Leggiamo:

 

I sacrifici che quotidianamente vengono richiesti, piccoli e grandi, non saranno più sentiti come un carico imposto per forza e sopportato come se fosse un giogo; diventeranno invece veri sacrifici, offerti liberamente e con gioia, mediante i quali, come membra co-sofferenti del corpo mistico di Cristo, si ha parte all’opera redentrice”. 

 

Edith prosegue poi nel mostrare come la via sacramentale sia veramente la principale sorgente di energia per vivere in maniera adeguata la propria vita di donne. 

La vocazione è infatti altissima, e tuttavia anche chi è maturo resta pur sempre soggetto a fragilità. E’ da mettere in conto l’errore; il peccato rallenta il cammino, ma se riconosciuto e confessato esso non compromette il percorso. Al riguardo così scrive:

 

A ciò si aggiunge, in tutti quei casi in cui si è sbagliato per colpa propria, nei quali c’è il pericolo di essere tagliati fuori dal flusso della grazia, la possibilità del rinnovamento interiore nel sacramento della penitenza: la possibilità di diventare sempre di nuovo liberi dall’oppressione del passato per andare incontro al futuro come rinati”. 

 

Anche l’essere membra della Chiesa, militante e trionfante, ha in sé una grazia grande; dice Edith:

 

Va ancora aggiunto il rafforzamento nella fede in virtù della comunione con persone che mantengono anch’esse lo sguardo fisso sulla meta eterna, coi viventi e con quanti sono già entrati nella gloria ed hanno la forza di portare aiuto, forse una forza particolare relativa a una necessità del momento, derivante dal fatto che in difficoltà simili sono restati fedeli”.

Da ultimo poi cita la grazia specifica, legata proprio al sacramento del matrimonio.

Quello matrimoniale non è naturalmente l’unico stato di vita che una donna può abbracciare.

 

La seconda possibilità di realizzazione vocazionale per la donna è la vita religiosa. In realtà di questo ne abbiamo già parlato in altre conversazioni, tuttavia credo valga la pena mettersi ancora una volta in ascolto di Edith, che sempre ha la capacità di far emergere nuove sfumature.

 

Per la religiosa, in luogo del sacramento del matrimonio come mezzo particolare della grazia per darle nuova forza in vista della sua vocazione, c’è la consacrazione liturgica delle vergini o almeno la professione solenne dei voti, attraverso cui ella si unisce per sempre al Signore, come sposa. In quest’atto solenne, riceve la benedizione a vivere come sponsa Christi”.

 

L’azione poi della religiosa, qualunque essa sia, deve essere trasparenza dell’invisibile, rimandare a Dio e Lui solo indicare. 

Lo stato di vita consacrata però è oltre il livello della natura; è perciò necessario un particolare dono della Grazia perché possa essere vissuto con fedeltà. 

Scrive Edith:

 

E’ necessaria una forza spirituale e psichica soprannaturale per affrancarsi tanto risolutamente da ciò che è terreno e vivere nell’invisibile; una forza che può essere data solo dalla grazia e per la quale ci si deve sempre di nuovo preparare mediante un’ascesi instancabile”.

 

Naturalmente la consacrazione religiosa non è vocazione solo femminile, perciò Edith si interroga se esiste una diversità tra l’uomo e la donna. Considerando solo la vocazione religiosa e non quella sacerdotale, arriva ad affermare:

 

Credo che, quando l’abbandono è puro e completo, l’aspetto fondamentale nell’uomo che nella donna, debba essere l’amore sponsale dell’anima […] questo atteggiamento si troverà certamente in maniera tanto più pura quanto più saranno progrediti nella vita interiore”. 

 

Esiste poi un altro stato di vita in cui la donna può venirsi a trovare, cioè quello di nubile, ma non per scelta, ma per circostanze di vita: sognava una famiglia propria e non l’ha potuta avere, oppure desiderava la vita religiosa ma non è potuta entrare in un convento o in un monastero. Non è una situazione molto semplice, perché sebbene ella svolga una attività professionale, questa non riempie il cuore saziando il bisogno più profondo di amore. Trattando questa delicata questione Edith mostra tutta la sua sapienza. Leggiamo direttamente le sue parole

:

C’è il pericolo che la vita venga considerata un fallimento, che l’anima s’intristisca, sia esacerbata e non si trovi la forza per un’attività femminile feconda. A ciò si aggiunge il fatto che, secondo ogni apparenza, manca un aiuto della grazia corrispondente a quello previsto invece per le altre strade che può prendere la vita femminile […] Trasformare in scelta personale ciò che non si è scelto, e realizzarlo liberamente e con gioia, lo potrà fare solo chi vede in ciò che è imposto dalle circostanze l’azione della volontà di Dio, e non aspira  a nient’altro che ad accordare la propria volontà con quella di Dio. Ma chi, in tale maniera, consegna la propria volontà a Dio, può essere certo che sarà guidato in modo particolare dalla grazia […] E’ una chiamata non a una via già battuta o tracciata, ma a un compito individuale, che non si ha davanti ben definito fin dall’inizio, ma che si rivela pian piano, a ciò può corrispondere il fatto che la particolare forza necessaria per i compiti di una vita di tal genere non si trovi in una forma di vita comune, liturgicamente consacrata, ma in una direzione individuale […] Questo richiede in primo luogo che si faccia tutto quanto è nelle proprie forze per restare vicini al Signore, vale a dire che si utilizzino i mezzi della grazia che sono a disposizione di ogni cristiano. La cosa più importante è che la Santa Eucaristia sia al centro della vita […] Diventerà così spontaneo considerare le questioni della propria vita con gli occhi di Dio, e si imparerà a decidere seguendo il Suo spirito”.

 

E’ un passo molto bello questo, che vale in realtà per ogni persona, in qualunque forma di vita si trovi. Quanto segue poi è ancora più bello: 

 

La vita con il Salvatore eucaristico, inoltre, porta con sé la conseguenza che l’anima viene elevata al di sopra dello stretto orizzonte della sua vita personale individuale, che tutto ciò che riguarda il Signore e il suo Regno diventa per lei cosa propria, proprio come accade per coloro che Gli hanno promesso fedeltà nello stato religioso, e che in pari misura perdono d’importanza sia le piccole che le grandi necessità della vita individuale. Si instaurano quella libertà e quella letizia che sanno attingere sempre nuova vita dalle fonti eterne. […] E poiché da chi cammina la mano nella mano di Dio fluiscono fiumi di acqua viva, eserciterà un’attrazione misteriosa sulle anime assetate; senza proporselo, dovrà diventare guida di altri che aspirano alla luce, esercitare la maternità spirituale e generare e crescere «figli» e «figlie»  per il regno di Dio”.

 

Sono righe particolarmente ricche di pathos: è evidente che qui parlava par esperienza personale diretta, anelando lei, al tempo di queste conferenze, alla vita del Carmelo e non potendola ancora di fatto abbracciare. 

Questa via personale però richiede degli aiuti che, se sono consigliati per qualunque stato di vita, qui divengono veramente essenziali; il più importante di essi è certamente la guida spirituale. Così si esprime:

 

Nella vita di coloro che hanno percorso una via tanto al di fuori dell’ordinario, però, troviamo ancora un mezzo per assicurarsi della volontà divina, che non è stato ancora menzionato. E’ l’obbedienza a un rappresentante visibile di Dio, alla guida di un sacerdote”. 

 

I motivi che Edith indica circa l’importanza di camminare con una guida spirituale sono tre:

  1. il pericolo dell’autoinganno: è facile infatti prendere per volontà di Dio ciò che è semplicemente desiderio del cuore o inclinazione naturale
  2. di norma nessuno è buon giudice di se stesso: uno sguardo esterno, sereno e imparziale, è sempre di aiuto
  3. il cammino spirituale non procede di luce in luce; al contrario, ci sono tempi assai oscuri e dolorosi, delle autentiche notti interiori. Ebbene, per non perdere la strada la soluzione migliore è affidarsi a una guida illuminata

In realtà anche la scelta della guida spirituale è bene lasciare che sia Dio a condurre il gioco. 

Così dice Edith:

 

Chi intende trovare la giusta guida spirituale, anche nella sua scelta dovrà farsi condurre non dal proprio arbitrio ma dalle disposizioni divine, così come per l’intero cammino la guida interiore e quella esteriore dovranno procedere sempre la mano nella mano. Solo la vita potrà insegnare a quali compiti la divina disposizione voglia destinare la singola persona”.

 

In realtà il tema dell’accompagnamento spirituale è stato trattato anche nella riflessione

sulle relazioni empatiche. E' nell'allegato PDF qui: 

http://www.edithstein.name/scritti-su-edith/empatia-come-modalità-relazionale/

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